Religioso, poeta e coscienza inquieta: l'ultima intervista-testamento di Giorgio Calcagno

Religioso, poeta e coscienza inquieta: l'ultima intervista-testamento Religioso, poeta e coscienza inquieta: l'ultima intervista-testamento Padre Turoldo torna e grida «Invoco miseria per i ricchi» IL CASO. Adue anni dalla morte, Davide Turoldo torna a chiedere ascolto. E' stato l'ultimo dei poeti che 1 hanno saputo trovare un pubblico. E' stato l'ultimo dei profeti: voce spesso gridante nel deserto, che non si è mai stancata di parlare. E parla ancora oggi, con le testimonianze che escono postume, raccolte da una studiosa italo-americana. Maria Nicolai Paynter ha interrogato a lungo il frate servita, ormai minato dalla malattia, fra il 1990 e il 1991: e lui ha cercato di rispondere, con la parola, per iscritto, rievocando decenni di conflitti con la sua società e con la sua Chiesa, «prima dell'ultimo silenzio». Purché verità sia libera, il volume che sta uscendo da Rizzoli, con quella lunga confessione, nasconde, sotto un titolo un po' enfatico, la straordinaria esperienza, religiosa e umana, del personaggio, «vagabondo di Dio», come egli stesso si definisce. L'uomo nasce povero, in un borgo contadino del Friuli, e alla povertà cerca di tenersi fedele, tutta la vita. Si sente il rappresentante della sua terra, «voce soprattutto di chi non ha voce, voce dei poveri, perché uno di loro: per fortuna». Sì, aggiunge in risposta a un'altra domanda, «i poveri sono stati la causa della mia vocazione, sono il contenuto della mia fede, fonte di ispirazione della mia poesia». Una pagina, struggente, racconta il ritorno, dopo più di cinquantanni, nella casa natale, venduta da suo padre quando lui era ragazzo. E la ritrova come allora: «Stessa caligine, stessa finestra sconnessa, stesso focolare e lavello... Solo che era spento il fuoco, e non c'erano i due recipienti di rame, la sola dote di sposa portata da mia madre». La povertà, ricorda, «è stata la mia più grande ricchezza: la prima vera maestra, che mi ha insegnato quanto è buono il pane». Ma è stata anche la condizione esistenziale dell'uomo, che gli fa misurare la precarietà della vita: «Da friulano, io ho sempre chiesto scusa di esistere». C'è una apologia della povertà, in tutte le sue parole, come c'era nelle sue apostrofi dal pulpito milanese, che allontanavano molti devoti, scandalizzati per le sue invettive. Una volta, addirittura, invitati apertamente ad andarsene. «Mai ho predicato e meno ancora sperato affinché un povero diventi ricco, ma ho sempre predicato e sperato che un ricco diventi povero». Un personaggio così era difficile da accettare, perché non conosceva mediazioni. Quando, a 17 anni, il giovane Giuseppe Turoldo, entrato nell'ordine religioso, deve scegliersi un nome, non ha dubbi. Lo sceglie nella Bibbia e si fa chiamare Davide. «I salmi e la fionda si collocavano già, così, nel suo destino», testimonia Camillo De Piaz, suo compagno di seminario allora e di battaglie sempre. «Di Golia non ne sarebbero mancati sulla sua, sulla nostra, strada». Si sentiva profeta, il giovane friulano, e ne aveva tutte le caratteristiche, con quella sua figura alta, la lunga capigliatura bionda, la voce dalle risonanze fonde che avrebbe affascinato il pubblico del Duomo milanese. Ma, avverte Turoldo prima dell'ultimo silenzio, «la profezia non è annuncio del futuro, è denuncia del presente». E nel presente il profeta si è immerso: dagli anni giovanili, che lo hanno visto scendere in piazza, prete della Resistenza, fino all'ultima maturità, sempre in polemica con le istituzioni. «Beati coloro che hanno fame e sete di opposizione», spiega alla interlocutrice, annunciando una inedita beatitudine. Quella fame e quella sete, nel primo dopoguerra, lui cerca di coltivarle a Nomadelfia, la città dell'utopia cristiana inventata da don Zeno Saltini sul campo di Fossoli. Fra i giovani accorsi da tutta Italia, c'è un architetto triestino che farà parlare di sé: si chiama Danilo Dolci. Quegli evangelici integrali, teste calde, un po' rossi, mettono paura ai borghesi. «Qual è la sua quinta colonna?», chiede a Turoldo il cardinale Schuster, che ha ricevuto rapporti sospettosi. «Eminenza, sarà Gesù Cristo, spero», risponde il frate. L'arcivescovo di Milano apprezza la risposta, tanto da appoggiare egli stesso l'iniziativa. Altri cercano di stroncarla. L'esperienza di Nomadelfia finisce con le camionette della polizia che distruggono la comunità. La sua vita è compresa tutta nella oscillazione del pendolo, fra la fedeltà alla Chiesa e la lotta contro il potere, anche ecclesiastico. E accumula una serie di puntuali sconfitte. «Sono abbastanza famoso per essere un perdente», ammette. Ma, precisa subito, «è meglio essere perdenti che perduti». Quante battaglie perse; e alcune rimangono brucianti, anche alla fine della vita. Turoldo ricorda di essersi battuto invano per pubblicare in Italia un libro del Maritain, Le leggi della storia, dopo un incontro con il filosofo a Princeton. Maritain aveva subordinato la pubblicazione a un nullaosta di monsignor Montini, allora arcivescovo di Milano. Ma non bastò neppure l'appoggio del futuro Papa per vin- cere le diffidenze della Curia romana, che considerava l'autore di Umanesimo integrale in odore di eresia. Più paradossale ancora la vicenda dei nuovi inni eucaristici che Turoldo aveva scritto su rischiesta della Commissione liturgica, dopo il Concilio. Per evitare ostacoli, gli chiesero di presentarli anonimi, come frutto della Commissione. Inutilmente. A libro già stampato, «quando il cardinale Siri seppe che gli inni erano miei, impose che i fascicoli fossero distrutti, che di me e della cosa non si facesse più verbo: così mi disse». Turoldo trova un po' di spazio con l'avvento di papa Giovanni, e dopo la sua morte si rifugia a Sotto il Monte, aiutato dal vescovo di Bergamo, monsignor Gaddi, che gli affida l'abbazia abbandonata di Sant'Egidio e si batterà per lui. Ce ne sarà bisogno. «Io allora avevo la proibizione di parlare nelle sale cattoliche di tutta la Lombardia. Addirittura si predicava dai pulpiti di non frequentare Sant'Egidio. C'è stata una lettera sottoscritta da più di venti sacerdoti nella quale si denunciava che Sant'Egidio era diventato un "posto di carbonari" e si chiedeva la mia cacciata». Solo dopo la chiamata a Milano di Carlo Maria Martini padre Davide può tornare nella «sua» città, e riprendere la parola. Ma l'uomo è malato, non potrà vivere a lungo: sempre predicando, e scrivendo, fino all'ultimo giorno. E poi, il ritorno definitivo a Sotto il Monte, dove aveva sognato di creare la nuova Assisi. Sulla sua tomba c'è una croce, che un amico falegname, anarchico e ateo, ha ricavato dal legno di un'antica trave, incastonandovi una pietra della casa natale del poeta. E c'è una piccola urna piena di terra friulana, dono dei compaesani. «Le sorgenti mie sono la mia terra, la mia gente e la Bibbia», confessa l'uomo che ha voluto essere Davide. Le ha accanto, per sempre, tutte e tre. Giorgio Calcagno «Beati coloro che hanno fame e sete di opposizione» «Beati colorofame e sete di opposizio A sinistra: Turoldo Qui accanto: Giovanni XXIII Sopra: Danilo Dolci e (a sinistra) il cardinale Martini