Schindler, una donna per l'eroe di Fabio Galvano

«I nazisti non lo uccisero perché non conveniva: erano corrotti e. : pagava» Spielberg celebra il benefattore, ma dimentica Emilie Schindler, una donna per l'eroe Isegreti della moglie rimasta nell'ombra LONDRA DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Un eroe, come lo presenta il film di Steven Spielberg? Macché eroe: «Semplicemente a nessuno interessava bruciarlo. Erano tutti corrotti, tutti felici di essere comprati. Tutti pensavano, stupidi loro e stupido lui e stupide le SS, che in Polonia sarebbe andata avanti così per sempre. Persino dopo che gli americani erano entrati in guerra». L'iconoclasta del giorno si chiama Emilie Schindler. Suo marito, l'uomo che a Cracovia salvò 1100 ebrei dalla «macchina della morte» dell'impero nazista, è il protagonista di Schindler's List: il film che sta già prenotando a Spielberg una manciata di Oscar e che l'America saluta come il più grande tributo del mondo della celluloide all'Olocausto. C'è un solo problema: il fimi, come il libro di Thomas Keneally da cui è tratto, parla di Schindler ma ignora sua moglie. E lei, ancora con il dente avvelenato con quel marito che la tradiva di continuo, non è disposta ad alimentare il mito. L'ha ritrovata, in una piccola casa di una cittadina argentina, una giornalista americana. Emilie Schindler abita a San Vicente, la stessa località dove Perón trascorreva le vacanze. Là, in una stanza con le pareti rosa, piena di tendine a pizzo per frenare le zanzare e con qualche foto sbiadita, Emilie ricorda e ridimensiona. Ha 86 anni e di cose, nella vita, ne ha viste molte. Quando il vicino di casa, che lei definisce uno spacciatore di droga, sparò ai suoi gatti, Emilie non fece una piega. «Nella mia vita - lo stese - ho visto ben altro». Ma qualcuno sostiene che troppo sia stato perso nel mare dei ricordi, che il suo ruolo nella vicenda della «lista di Schindler» sia stato più importante di quanto si dica. Non era lei, dopo tutto, la donna misteriosa che con pentoloni di semolino salvò un gruppo di ebrei reduci da Auschwitz? Non era lei quella che nutriva i 1100 ebrei salvati dal marito e cucinava per loro? Dina Rabinovitch, la giornalista che l'ha raggiunta in una polverosa giornata della calda estate argentina, e la cui ricostruzione è apparsa ieri sulle pagine del Guardian, non nasconde la sua sorpresa di fronte a una donna che, di fronte alla grandezza della Storia, insiste nella polemica con il marito donnaiolo; e tutto il resto passa in secondo piano, anche ora che Bill e Hillary Clinton le hanno voluto stringere la mano all'inaugurazione del Museo dell'Olocausto a Washington, e il presidente tedesco Von Weizsaecker l'ha ricevuta all'ambasciata di Bonn, e il presidente argentino Menerà ha voluto farsi fotografare con lei come per mondarsi della colpa nazionale d'avere dato asilo a un migliaio di nazisti come il «medico della morte» Josef Mengele. Nella sua casa di San Vicente, in una busta marrone, ci sono una ventina di fotografie. E' quello che le rimane degli anni dell'orrore. C'è anche la foto di quella che libro e film definiscono «la bella ebrea»: una delle amanti di Schindler. «Come può vedere - dice divertita a Dina Rabinovitch, di fronte a quel volto paffuto e occhialuto - non era poi una grande bellezza». Gioca il suo ruolo in tono minore. Il marito avrà avuto il merito d'avere speso ogni sostanza per salvare gli ebrei della sua fabbrica; ma lei era quella che li curava e li teneva in vita. E non a caso è un Istituto di benefi¬ cenza ebraico, la Bnai Brith di Buenos Aires, che negli Anni Sessanta le comperò la casa dove vive ora, e che ogni mese le passa una pensione. Schindler e la moglie arrivarono nel 1939 nella Cracovia occupata: lui ebbe l'occasione di comperare una fabbrichetta di smaltatura e per raggranellare il denaro non esitò a cercare finanziamenti nel ghetto impegnandosi, in contrac¬ cambio, a impiegare manodopera ebraica. Non c'erano problemi di discriminazione. ((Allora un ebreo non era un ebreo», dice Emilie, ricordando quanti ebrei erano venuti al loro matrimonio, pochi anni prima: «Non faceva alcuna differenza, la stupidità cominciò solo con Hitler. In realtà gli ebrei erano più tedeschi dei tedeschi; e quella è stata la loro stupidità». Ma per Oskar Schindler quello che era essenzialmente un esercizio per arricchirsi in fretta diventò una missione per salvare vite. Membro del partito, teneva alla larga le SS con regali e sorrisi; e non esitava a farsi fotografare con loro, nei locali notturni, mentre l'Olocausto batteva alle porte. Quando i suoi operai furono caricati su un treno, Schindler andò allo stazione e li salvò facendo nomi di amici potenti. Più tardi, di fronte alla «soluzione finale», pagò: denaro e diamanti in cambio di vite. Spese tutto, si rovinò. Con Ernilie, la moglie tradita, sempre al fianco. «Ero come il jolly in una partita di carte», racconta lei ora: «Quando ce n'è bisogno, lo si gioca. Se veniva qualcuno importante, o di cui qualcuno in fabbrica aveva paura, mi chiamavano». Ricorda Amon Goeth, il sadico ufficiale delle SS che comandava il campo di lavoro di Plaszow: gli cucinava manicaretti per cena, poi andava a imboccare sotto le loro tettoie gli ebrei troppo deboli per nutrirsi da soli. 0 l'ispettore Lange, responsabile degli armamenti: «Il suo guaio era di essere una persona molto corretta, non lo si poteva corrompere come gli altri». Ma soprattutto, in quel periodo, Emilie doveva provvedere all'alimentazione degli «Schindlerjuden», quel manipolo di ebrei che in un'edificante storia di riconoscenza umana non ha mai dimenticato il suo benefattore. Ricorda il mugnaio: quando usciva, la sua pelliccia era gonfia di vodka, ma poi arrivava la farina. Il veterinario, che in cambio di caffè forniva medicine. Infaticabile, provvedeva a quell'esercito di sventurati. Ma rimaneva nell'ombra. Eppure qualcuno la ricorda. Non Michael Klein, allora quindicenne, che verso la fine della guerra arrivò in un vagone di scheletri e di morti da Auschwitz: «Sì, ricordo quel semolino. Eccome, se lo ricordo. Può darsi che ce l'avesse portato Emilie. La verità è che ricordo il semolino, non chi ce lo diede». Ma altri, fra gli Schindlerjuden, sanno bene: «L'ho vista prepararlo, due pentoloni, e portarli a quei poveretti». Gli Schindlerjuden: dovunque Keneally abbia fatto le sue ricerche se li è ritrovati davanti: un'armata compatta. Sono stati loro, dopo la fine della guerra, a proteggere Schindler. Sette di loro, nel 1949, l'hanno accompagnato in Argentina. Ed è stato uno di loro, diventato giudice della Corte Suprema d'Israele, a salvare il suo benefattore dalla bancarotta. Quando Schindler tornò in Germania, nel 1957, lasciando la moglie a curare il campicello argentino, gli affari andarono male. Rischiò la bancarotta e la galera. Fu il giudice Moshe Bejski a salvarlo, con 165 mila marchi: un patrimonio, a quei tempi. E da allora, fino a quando Schindler morì nel 1974, con un gruppo di Schindlerjuden gli mandò un mensile di duemila dollari. Troppi, per qualcuno. Ma Bejski li convinse: «Sentite, se non fosse stato grazie a quest'uomo così bravo a spendere soldi, non saremmo vivi». Emilie ricorda l'avanzata dei russi, con gli ebrei che vollero rimanere al loro fianco per salvarli con la loro testimonianza. E la cuoca russa che frenò i soldati di Stalin, che «cercavano soltanto donne e orologi». Lui, Schindler, non era che l'ombra del passato: «Era diventato come un fungo - ricorda la moglie -, non poteva più fare nulla». Per salvarsi fu anche costretto a ubriacarsi con un russo cantando le lodi di Stalin. Di tutto questo il film di Spielberg, tre ore che inchiodano alla poltrona, non parla. Le storie del «dopo», sovente, si perdono. E' non è certo Emilie a farle rinascere. «Troppo giovane e troppo sciocca», dice ricordando il primo incontro, quando aveva appena vent'anni, e lui cercava di vendere un trattore al padre. E poi le amanti. Da una, che abitava nella stessa via di Zwittau, Schindler ebbe un figlio e una figlia. E poi altre: numerose, dovunque. Il matrimonio non durò molto. «Schindler - dice lei, che non lo chiama mai Oskar - non mi trattava male. Semplicemente si comportava come se io non ci fossi». Divorzio? «Non lo voleva, il matrimonio lo difendeva dalle amanti». E con una di quelle, anzi, i due abitarono: a Monaco, subito dopo la guerra. «Ormai non m'importava più di lui. E comunque la relazione fra lui e Ingrid era finita da tempo». E' Ingrid, oggi, a sostenere la causa di Emilie. Se è vero che dietro a ogni grande uomo c'è una donna, dice, questa è la donna dietro la Schindler's List. Fabio Galvano «I nazisti non lo uccisero perché non conveniva: erano corrotti e. : pagava» Lui salvò oltre mille ebrei Ma lei ricorda: «Era un donnaiolo pieno di amanti» Steven Spielberg sul set di «Schindler's List». Per qualcuno è il più grande tributo fatto dal cinema all'Olocausto Ben Kingsley, Liam Neeson e Caroline Goodall (nel ruolo di Emilie Schindler). A destra, Neeson (Oskar Schindler). Sotto, Kingsley in una scena del film