«Fermate quegli assassini»

RADIOCRONACA DB UNA STRAGE «Fermate quegli assassini» Le ultime voci da una città fantasma RADIOCRONACA DB UNA STRAGE SPALATO DAL NOSTRO INVIATO «Non so, non ci credo, forse mi sto sbagliando... ma ho appena visto passare un camion carico di corpi...». Si fa di colpo incerta, la voce di Semce. Fino a un attimo fa, dall'ultimo piano del «Ptt Building», al margine Est del centro di Sarajevo, raccontava spedita del tempo e di una mattinata tranquilla. «No, non sparano da ieri. Anzi, poco fa ho sentito due o tre granate, ma isolate. E lì come va? Ho sentito Milan, a Novi Sad: anche i cetnici se la passano male. E dimmi, come stanno... Ma no aspetta. Aspetta. Aspetta un momento... Oh Dio santo». Voci da Sarajevo, ombrati e fruscianti spezzoni di un massacro. Il resoconto di Semce adesso si è ridotto a un mormorio: «C'è stato qualcosa, è successo ancora... ci sentiamo dopo. Chiudo». Una frazione di secondo, e sulla frequenza irrompe la musica di Radio Sarajevo. Strano: hanno appena macellato 51 persone, e quelli mandano in onda l'orchestra d'archi di James Last. Vanno così le cose, nei Balcani. Esci dall'Erzegovina, approdi in Dalmazia appena in tempo per sapere che al centro della Bosnia si è consumata l'ennesima tragedia. Ed eccoti a scambiare brandelli d'informazione con la cooperatrice francese, il volontario italiano, l'«official» dell'organizzazione per i rifugiati. Eccoti coivolto in una psicosi che porta tutti negli stessi luoghi, le saleradio delle organizzazioni umanitarie, una sul lungomare di Split, l'altra a una ventina di chilometri, in direzione dell'aeroporto. Tutti intorno agli operatori e fra disturbi e scariche la realtà comincia a comporsi, cruda, feroce. Semce ha riacceso il suo microfono, e adesso parla concitato: «Qualcuno è appena arrivato dall'ospedale francese: ha detto di aver visto due tronchi umani stesi sulle barelle. Non avevano né teste, né braccia, né gambe, veni- vano da Markale...». Altra lunga pausa. Ci sono altri radioamatori sulla frequenza, altre voci che tentano di inserirsi, per chiedere o dare informazioni. «Dall'ospedale di Kosevo dicono che le vittime sono in maggioranza donne, una è arrivata tagliata in due. Ci sono corpi irriconoscibili». Voce di donna, velocissima eppure molto fredda: «La granata non può essere giunta per caso, per superare i palazzi che circondano la piazza e piombarvi proprio al centro, bisogna calibrare il tiro con estrema attenzione». Ancora Semce: adesso sta parlando con un altro «contatto» abituale, nome in codice Viktor: «Non posso saperlo, non posso muovermi... come faccio a sapere se al mercato c'era qualcuno dei tuoi?». Altre interferenze, altri suoni: dall'improvvisa tempesta di scariche e brusii emergono nuovi brandelli di vita: «Cosa posso fare, cosa posso fare? Qui hanno fatto un macello, ci sono centinaia di vittime...». Uno che si fa chiamare Ifet, e parla anche lui dal Ptt Building: «Capisci? Qui sotto è passato un furgoncino che portava corpi, e ha lasciato sull'asfalto un nastro di sangue. Capisci? Capisci?». Un'altra voce di uomo, quella di prima, insiste disperata senza avere risposta: «Dimmi cosa posso fare per voi, Cristo. Dimmi cosa posso fare...». Intorno agli operatori di Split c'è chi prende appunti, chi ascolta e basta. Anche sulle onde radio è in onda una sorta di guerra: c'è qualcuno che disturba le comunicazioni, altri che si sovrappongono. Qualcuno che resuscita. «Viktoru, Viktoru...». Qualcuno sta chiamando Viktor da una trasmittente lontana, oppure poco potente: la voce emerge debolissima. Viktor comincia a parlare. «Zaim, sei tu?». «Sì Viktor, qui è Zaim. Ho sentito di Sarajevo, ma sono settimane che tento di mettermi in contatto...». Zaim parla da una Sarajevo che per il resto del mondo non esiste perché non esiste per giornali e tv. Da un luogo in cui devono essere accadute cose terribili, terribili davvero, poiché non se n'è saputo mai nulla. Flebili voci da Goradze, Bosnia centro-orientale, «enclave» musulmana che i serbi circondano da tempo immemorabile. Viktor dice: questa è una splendida occasione, Zaim, qui ci sono dei giornalisti: parla, racconta tutto quello che puoi. La voce lontanissima di Zaime si rivolge a qualcuno che evidentemente è vicino a lui, e gli chiede: «Mi autorizzi?». La risposta dev'essere positiva: accanto alla radio dev'esserci un ufficiale musulmano. E Zaim incomincia. «Nelle ultime due settimane i serbi hanno rimandato indietri sei convogli umanitari... sì, non li hanno fatti passare, ognuno portava dalle sessanta alle cento tonnellate di cibo e medicinali... Nell'ospedale? Quanti sono ades- so nell'ospedale?». Accanto a lui, nella remota Goradze, qualcuno snocciola dati: «Ecco, ci sono circa 250 persone, più 40 bambini... Non hanno più latte in polvere da almeno quattro mesi, e poi non ci sono antisettici, filo per suture, bende, garze, disinfettanti... Non ci sono neanche calmanti...». E' sconcertante la calma con cui lo speaker musulmano continua ad allineare i fatti: il collegamento può saltare da un momento all'altro, e bisogna fornire il maggior numero di informazioni. C'è gente, a Goradze, che si sta uccidendo lanciandosi dai balconi. Una bottiglia d'olio ormai costa dieci marchi, un litro di ben- zina o gasolio 25, un chilo di tabacco 1200, una stecca di sigarette 500 marchi. Viktor commenta amaro: «Un paio di mesi fa, a Goradze, un contadino ha dato una mucca per due pacchetti di Marlboro». Dall'altra parte, sempre più flebile, la voce da Goradze continua a lanciare nell'etere messaggi in bottiglia. «Qualcuno ci aiuti... qui doveva esserci l'Onu e ci sono soltanto sei osservatori... doveva esserci "Médicins sans frontières" e invece se n'è andata... settantamila persone sono assediate da mesi e stanno morendo un po' alla volta... bzzzz, bzzzzz... ed è sempre tutto eguale perché... bzzzz... bombardano meno ma tutti i giorni... bzzzz... morte lenta... bzzz». Fine del collegamento. «Aiutateci, aiutateci». Ecco un'altra voce, di donna: parla una sorta d'italiano, arriva flebile. Da Tuzla, altra Sarajevo dimenticata, l'operatore ha dato il microfono a una della famiglia Piccolotti. Italiani? Beh, di origine, come molti a Tuzla: discendenti di famiglie emigrate un secolo e mezzo fa dal Trentino. «Non abbiamo più farina». Altre voci si sovrappongono: sono parenti che parlano via radio. Uno chiama dalla Germania, l'operatore radio accoppia la cornetta all'apparecchio, chiama un altro radioamatore, quello fa lo stesso dall'altra parte. C'è una donna che dev'essere in Germania, quella che le risponde forse a Sarajevo. «State be... siete vivi?». «Sì, hai ricevuto da lettera?». «Non ricevo lettere da due mesi». «La tua famiglia sta bene, o almeno erano vivi due settimane fa. Hanno avuto una casa, ma devono starci in 14». «Dimmi come posso fare a mandarti un pacco, del danaro, quello che vuoi». «Come faccio a dirtelo, qui non c'è più nulla di sicuro». Un padre parla col figlio. Lo fa a monosillabi. Tenta di non scoppiare in lacrime. «Sei vivo?». Lunga pausa: «Sì, sono vivo». Altro silenzio che pare lunghissimo: «Saluta tutti, buona fortuna, e... figlio mio... non farti ammazzare. Fallo per me». Giuseppe Zaccaria «Vedo un camion di cadaveri» Poi la voce tace e irrompe la musica ILIDZA: sobborgo in mano ai serbi voli quotidiani di rifornimento dell'ONU sono sotto la minaccia dell'artiglieria serba MONTE IGMAN COMANDO ONU 2.546 truppe da Francia, Egitto e Ucraina. 181 persone formano lo staff di supporto. LA BATTAGLIA DI SARAJEVO i del fronte serbo V0G0SCA: forze serbe armate di mortai da 82 e 122 mm Cadaveri sulla scena della strage [FOTO ANSA-EPA]

Persone citate: Giuseppe Zaccaria, James Last, Markale, Piccolotti, Zaim