Il maestro rifiutato

Gentile, un filosofo tra duefuochi Fu ucciso 50 anni fa: errori e grandezze d'uno «sconfitto» Il maestro rifiutato Gentile, un filosofo tra duefuochi CjADRA' fra poco il cinquantesimo anniversario della morte di Giovanni Gentile. L'ultimo atto della —I sua vita terrena cominciò nel giugno del 1943 quando Carlo Scorza, segretario del partito nazionale fascista, gli chiese di pronunciare in Campidoglio un «discorso agli italiani». Correvano giorni drammatici. In maggio si era conclusa a Tunisi, con la resa delle truppe tedesche e italiane, la lunga ritirata di El Alamein. L'11 giugno gli anglo-americani avevano occupato Pantelleria e Lampedusa. Nessuno, ai vertici dello Stato, poteva ignorare che di lì a poco gli alleati sarebbero sbarcati in Sicilia e che la guerra si sarebbe combattuta sul territorio nazionale. Nessuno credette che le truppe dell'Asse, come promise Mussolini, li avrebbero fermati sul «bagnasciuga». Gentile viveva da anni in splendido isolamento. Il regime gli aveva graziosamente concesso il possesso di una prestigiosa torre d'avorio accademica - la Scuola Normale Superiore -, ma lo aveva gradualmente spogliato del potere politico e culturale che il filosofo aveva esercitato negli anni precedenti. Era sempre un grande vecchio, stimato da Mussolini, rispettato dagli intellettuali e venerato dai discepoli. Ma era ormai, politicamente, un leone spelacchiato e sdentato. Avrebbe potuto respingere l'invito di Scorza, ricordare le sue cattive condizioni di salute. Decise invece di mettersi in orbace e camicia nera per fare agli italiani, nel pomeriggio del 24 giugno, un discorso retoricamente patriottico, ma non privo di spunti interessanti. In primo luogo rivendicò i meriti del fascismo, ma ne dette un'interpretazione fortemente progressista, vicina a quella dei molti discepoli che lo avevano abbandonato per spostarsi su posizioni comuniste. In secondo luogo accettò implicitamente la possibilità della sconfitta e sostenne che le nazioni si salvano, nel momento del pericolo, quando si dimostrano degne di sopravvivere. Giunge sempre il momento nella storia di un popolo - ricordò -, quando occorre combattere soprattutto contro se stessi per conservare intatto il senso della propria dignità. Erano gli argomenti e le emozioni con cui aveva reagito a Caporetto, ventisei anni prima. Possiamo rimproverargli di non avere compreso che la situazione era profondamente diversa, che il fascismo non poteva chiedere agli italiani la partecipazione e il consenso con cui l'Italia liberale aveva reagito alla sconfitta del 1917. Ma il tono di quel discorso fu certamente nobile e alto. Cadde il fascismo, si formò un governo di «unità nazionale» presieduto dal maresciallo Badoglio e Gentile credette candidamente che non vi fosse contraddizione fra il discorso del Campidoglio e il programma del nuovo ministero. Ma una sua lettera al ministro dell'Educazione nazionale (Leonardo Severi, vecchio collaboratore degli anni in cui egli aveva introdotto la sua grande riforma scolastica) gli attirò una pubblica risposta, sferzante e umiliante. Ricevette in quei giorni molte lettere anonime e minacce di morte. Rispose concentrando ogni sua energia intellettuale su un libro, Genesi e coscienza della società, in cui sviluppò radicalmente il fondo idealistico della sua cultura filosofica. Meditando e scrivendo in quella tragica estate del '43 trovò consolazione nella certezza che ogni uomo è un essere sociale, che esiste un «io» sociale in cui ciascuno di noi convive con gli altri e sviluppa con essi un dialogo ininterrotto. In questa prospettiva filosofica l'uomo che muore sopravvive nei suoi «soci» e la morte può essere, quando è spesa per un alto fine, «positiva e creativa». In settembre portò il libro con sé a Firenze e lo mostrò a un amico antifascista, Mario Manlio Rossi. «I vostri amici - gli disse - possono uccidermi ora se vogliono. Il mio lavoro nella vita è finito». Quando Mussolini tornò dalla Germania e costituì la Repubblica sociale italiana, Gentile era a Firenze dove divenne rapidamente il bersaglio di un fuoco incrociato tra fascisti radicali e antifascisti. I primi lo accusavano di avere trescato col governo Badoglio, i secondi di avere servito la tirannia. Non tutti, però, gli erano nemici. Il nuovo ministro dell'Educazione nazionale, Carlo Alberto Biggini, gli chiese di assumere la presidenza dell'Accademia d'Italia e di far visita al «vecchio amico che desiderava vederlo ed era addolorato di certe manifestazioni recenti, ostili alla sua persona». Il «vecchio amico» era Mussolini con cui Gentile ebbe un colloquio «commoventissimo» a Salò il 17 novembre. «0 l'Italia si salva con lui - disse a Biggini quando uscì dall'incontro - o è perduta per molti secoli». Da quel momento il filosofo s'impegnò a fondo. Condannò 1'«attendismo» di coloro che stavano alla finestra, ma predicò l'unità nazionale e la riconciliazione degli italiani: chiese ai suoi connazionali di restare al fianco dei tedeschi, ma disse che la persecuzione poliziesca degli antifascisti era uno «sconcio senza pari»; esaltò Mussolini come rappresentante dell'«Italia di Vittorio Veneto» ma gli scrisse una lettera per denunciare i metodi «stolti e brutali» dei fascisti di Firenze; rese omaggio a Hitler e condannò la «barbarie» alleata, ma difese un intellettuale comunista, Aldo Braibanti, arrestato e torturato dal gruppo di Mario Carità. Era una posizione scomoda e contraddittoria, nazionale ma fascista, patriottica ma necessariamente faziosa. Ancora una volta fu preso tra due fuochi. Un grande storico dell'antichità, Concetto Marchesi, rifiutò il suo invito alla concordia e scrisse parole - «La spada non va riposta, va spezzata» - che Luciano Canfora ha interpretato qualche anno fa come un minaccioso segnale massonico. Il colonnello Stevens gli dedicò un duro attacco dai microfoni di Radio Londra. I fascisti fiorentini lanciarono oscure minacce. Nessun altro uomo, in quei mesi, fu altrettanto odiato in ciascuno dei due campi in cui si era divisa l'Italia. I due grandi nemici della guerra civile avevano un nemico comune: Gio- vanni Gentile. Il 15 aprile, nelle prime ore del pomeriggio, ritornò nella villa del Salviatino in cui abitava con la famiglia. Mentre l'autista si accingeva ad aprire il cancello un uomo si staccò dal muro di cinta e gli chiese se egli fosse veramente il professore Giovanni Gentile. Quando il filosofo annuì, l'uomo sparò alcuni colpi a bruciapelo gridando che non intendeva uccidere l'uomo, ma le idee. Era probabilmente Bruno Fanciullacci, «gappista» fiorentino. Gentile morì prima di giungere all'ospedale di Carreggi dove il medico di servizio, quel giorno, era uno dei suoi figli. Si sparse subito la voce che dietro la mano del gappista vi fossero i fascisti fiorentini. Gli intellettuali del Cln di Firenze deplorarono l'assassinio, ricordarono che Gentile aveva «incarnato (...) il miglior pensiero filosofico nazionale». L'incertezza sulle responsabilità si dissipò, tuttavia, quando ciascuno dei due campi rivendicò i propri morti. Biggini volle che Gentile venisse sepolto in Santa Croce e Togliatti, dal canto suo, rovesciò sul filosofo alcune delle parole più infamanti che un uomo politico abbia mai pronunciato sulla tomba di un grande intellettuale: traditore volgarissimo, canaglia, bandito politico, camorrista, corruttore di tutta la vita intellettuale italiana. Il leader comunista sapeva che Gentile era il padre di buona parte dell'intelligencija di sinistra e con la sua filosofia aveva avuto, per il tramite di Gramsci, una forte influenza sul marxismo italiano. L'uccisione del padre e gli insulti alla sua memoria dovettero sembrargli l'unico modo per estirpare dalla mente degli italiani D ricordo di uno dei loro maggiori filosofi. Così morì Giovanni Gentile. Capita di leggere ogni tanto che fu ucciso dai fascisti, non dai gappisti. In realtà potrebbe dirsi della sua morte quello che fu detto degli ufficiali polacchi, massacrati nelle fosse di Katyn, quando ancora restava un'ombra di dubbio sull'identità dei loro assassini: poco importa chi li abbia uccisi dal momento che nazisti e sovietici erano egualmt te interessati alla loro scomparsa. Gentile tentò d'incarnare in quei mesi un'Italia in cui nessuno dei combattenti si riconosceva e fu tolto di mezzo brutalmente. Lo uccise la guerra civile degli italiani. Sergio Romano Incontrò il Duce a Salò. E disse: «0 l'Italia si salva con lui, o è perduta per molti secoli» Qui accanto: Giovanni Gentile in un'immagine scattata a Forte dei Marmi. Qui sopra: il filosofo nel 1943