Sepolti gli anni del Vietnam l'ultima guerra mondiale

Un massacro iniziato nel '64: morirono 2 milioni di persone Un massacro iniziato nel '64: morirono 2 milioni di persone Sepolti gli anni del Vietnam l'ultima guerra mondiale LA STORIA CHE NON PASSA URI creduti solidi sono caduti dovunque, dopo Berlino; a Mosca, a Johannesburg, a Tokyo, a Gerusalemme, anche nei saloni silenziosi del Vaticano: la storia ne divora indifferente le macerie. Anche la guerra del Vietnam è stata come un muro; un muro di sangue e di orrore affondato nella memoria comune del mondo. La decisione ora di Clinton, di togliere l'embargo contro i vecchi nemici, mette via i conti del passato assai più dell'armistizio del '73, e chiude un'avventura amara che per più di dieci anni | ci fece, tutti, americani e no, combattenti di quella guerra. Perché, il Vietnam fu l'ultima vera guerra mondiale. Ne fummo tutti arruolati di dovere, un'intera generazione di uomini e di donne senza età e senza patria, chiamati a schierarsi; da una parte o dall'altra, ma schierarsi comunque. Per chi alla fine ci andò davvero, il ricordo angoscioso delle paludi a distesa, l'intreccio umido delle liane, un nemico quasi sempre invisibile, restano un segno cupo che soltanto la morte cancella; e 58.000 nomi scavati nella pietra di un marmo nero a Washington danno l'elenco di chi, da questa parte, l'oblio l'ha raggiunto (gli altri 1 milione 950 mila morti si sono disfatti dentro la jungla, povere storie quasi sempre senza storia). Per coloro invece che laggiù non ci andavano, c'era allora Dylan che cantava su una chitarra lagnosa, in re minore con un do oscillante, «Venite, padroni della guerra/ che costruite i grossi cannoni/ che costruite gli aeroplani carichi di morte/ che costruite tutte le bombe/ che vi nascondete dietro muri/ che vi nascondete dietro scrivanie/ voglio solo che sappiate/ che posso vedere attraverso le vostre maschere». Dylan cantava acido, senza enfasi, ma un milione marciava a Washington, e un milione marciava anche a Parigi, e poi a Roma, a Londra, a Bonn. E ogni mattino la tv dell'uomo qualunque sfornava sul piatto del breakfast, accanto al pane tostato e imburra- to, le faccie insanguinate di marines che urlavano il dolore, il napalm che bruciava anche l'ombra. Era cominciata ufficialmente nel '64, con la trappola benaddobbata del golfo del Tonkino, quando il «Maddox» aveva avuto a che fare con un paio di torpediniere nordvietnamite. Era un pomeriggio piatto di agosto ma, come da copione, l'orgoglio yankee assopito dalla calura dell'estate s'era svegliato brusco, e il giorno 7, congiuntamente, Congresso e Senato autorizzavano il presidente Johnson a «prendere ogni misura necessaria, incluso l'utilizzo delle forze armate». Quello che, nell'aprile del '54, mentre ancora Dien Bien Phu reggeva l'ultimo assedio, non era riuscito né all'ammiraglio Radford né a Poster Dulles, diventava ora la politica ufficiale degli Stati Uniti. I «masters of wars» che Dylan cantava su una chitarra acustica nei baretti del Village avevano vinto la loro guerra. Quella guerra però era cominciata assai prima, quando il freddo che soffiava tra Mosca e Washington aveva diviso il mondo lungo la linea del confronto planetario e il Sud-Est asiatico era diventato il primo campo di battaglia per il contenimento dell'espansione comunista nella geografia della povertà. Già dal '55 gli americani avevano passato a Ngo Dinh Diem gli aiuti che prima andavano ai francesi, e uno dei primi impegni di Kennedy, nel '61, era stato l'ordine di accentuare la presenza americana - di armi e di «consiglieri» - nella penisola. Anno dopo anno, l'operazione di ritorsione andò trasformandosi in un gigantesco trasferimento oltremare della più gros¬ sa macchina militare mai montata (bisognerà arrivare agli anni Novanta nel Golfo, e a Pagonis e «Bear» Schwarzkopf, per trovare una dimensione paragonabile): alla fine del '64 i Gi-men in Indocina erano già 23 mila, due anni dopo diventavano 390.000, e superavano abbondantemente il mezzo milione all'inizio del '68. Nel momento più alto dello scontro, gli americani, i sudvietnamiti, e il fronte delle forze alleate, schierarono sul campo più di 1 milione e 300 mila uomini, assistiti da una forza aerea imponente e da un programma di raids che portava la morte della vegetazione in un'area vasta quanto mezza Italia. Sul terreno si combatteva, a scelta, la guerra dell'imperialismo yankee contro i partigiani della resistenza vietcong, oppure la guerra dei difensori della libertà contro la minaccia delle dittature comuniste. I campi della battaglia erano autentici, ma la guerra aveva una complessità più difficile da districare; l'immaginario collettivo la viveva comunque nella sua pri¬ ma dimensione di lotta universale, dove non erano più possibili innocenze perché l'occhio spietato della telecamera annullava le latitudini del tempo e dello spazio e, per la prima volta nella storia dell'uomo, faceva irrompere il grido della morte e il rosso del sangue fin dentro la cultura grigia della quotidianità. Un maggiore dei marines incontrato in quegli anni, dalle parti del Cambogia, mentre ritirava il modulo con il quale il giornalista dichiarava a chi andasse il proprio corpo, in caso di morte durante le battaglie, un maggiore che si chiamava John Smithson o qualcosa di simile, un Aghetto rosso di pelo e teso come un Eastwood giovane, puntava il dito contro di noi e diceva sprezzante; «Tu, comunista bastardo», perché la guerra i marines la stavano perdendo per l'occhio crudo dei giornalisti. Il punto di rottura fu soprattutto My Lai, un villaggio di quattro capanne che nemmeno esisteva sulla carta ma dove un mattino umido d'autunno, nel '67, il ten. William Calley aveva fatto ammazzare tutto quello che si muoveva, uomini, donne, bambini e maiali. L'orrore travolse la coscienza degli america¬ ni, quando lo appresero, nel '69, e sconfisse ogni residuo di volontà assai più di quanto avessero potuto gli uomini di Giap che si erano lanciati suicidi all'attacco di Saigon e Hué, nel capodanno lunare del '68, durante la grande offensiva del Tet. E il Vietnam si fece una ferita profonda nell'orgoglio yankee; tre anni fa, sulla sabbia del Kuwait, una tenentessa di capelli biondi - Marie Kuszinsky, aveva 21 anni - ci diceva con lo sguardo che bruciava: «Finalmente, ora la storia del Vietnam è una faccenda chiusa», e con la mano mostrava i marines all'attacco del deserto. Al tempo degli accordi di Parigi, nel '73, Marie Kuszinsky in tv guardava soltanto i cartoni animati; ora sarà un capitano con gli occhi verdi, ma la sua guerra col Vietnam in realtà è finita soltanto ieri, quando Clinton ha chiuso la porta del passato. Una guerra finisce sempre quando finisce dentro gli uomini, non sul campo di battaglia. E una settimana fa Dylan ha venduto alla pubblicità la canzone che accompagnò gli anni di ima guerra lontana. Good morning, Vietnam. Mimmo Candito Il conflitto scrutato a fondo dalle telecamere obbligò il mondo a divide 1 in due gii, idi campi ideologici Clinton, e le bandiere vietnamita e Usa sulla facciata della «Compagnia americana di servizi» ad Hanoi Un uomo sposta scatoloni di Coca-Cola nel magazzino di un negozio ad Hanoi