Un giorno nel mattatoio di Mostar

Un giorno nel mattatoio di Mostar I blindati delle Nazioni Unite rifiutano di intervenire, sordi alle grida d'aiuto della gente Un giorno nel mattatoio di Mostar Bimbi straziati dal tiro a segno nelle strade :;^j:;::>:::^:;i^tì:;::;: L'INFERNO SULLA NERETVA MOSTAR DAL NOSTRO INVIATO Tutto sta a scendere sotto la nebbia. Superato l'ennesimo tornante, Mostar appare all'improvviso, in basso, stretta d'assedio da montagne grigie e ricoperta da uno spesso, ovattato lenzuolo. Quando arrivi alla centrale elettrica e al cimitero croato, avverti chequella nebbia ha un sentore. E' un tanfo malsano, impastato d'umido e di cordite, di marcio e di gomma bruciata che forma e coagula il sudario biancastro, lo stende lungo la valle, l'incolla alle facciate di grattacieli deserti. E' l'odore di una guerra che si sta decomponendo, il fetore di una lotta disperata cui solo i venti contrari impediscono di spandersi fino da noi. Eccoci a Mostar, l'altra Sarajevo. Una città distrutta prima dall'esercito serbo-federale, e adesso dallo scontro fra le sue due principali etnìe. Una delle tante, delle cento Sarajevo del grande macello balcanico, incastrate l'una nell'altra come in un «puzzle» in apparenza folle, eppure decifrabile. Ce l'ha spiegato due giorni fa, a Spalato, Giuseppe Di Caro, un funzionario della cooperazione italiana, mostrando su una carta topografica come sarebbe stato più prudente muoversi. «Vede? Le righe rosse indicano ie 'irws serbe, le nere quelle croate, 1 musulmani sono segnati in verde. A Mostar le tre linee finiscono col sovrapporsi: nei quartieri a Ovest, fin quasi al fiume Neretva, ci sono i croati. Cento, a volte trenta metri più avanti, i musulmani. I serbi sono subito alle loro spalle. E più indietro - vede? - un cerchio verde intorno a Vitez, dove sono i musulmani ad assediare i croati, un altro che circonda Kiseljak. A Sarajevo, Goradze e Zepa gli assedianti invece sono serbi. Basta pochissimo a rompere questo equilibrio. Se una delle armate sfonda, ci sarà una reazione a catena». Tutto chiaro, sulla carta. Però è solo quando scendi sotto quella nebbia fetida, quando cominci a guardare le cose dal basso, a livello strada, all'altezza di tutti i comuni sopravvissuti, che riesci a dare spessore alle parole, a cogliere verità altrimenti incomprensibili mettendo assieme altri brandelli del quadro, che sarà il più sterminato Guernica mai dipinto. Cos'è, a Mostar, la paura? Una cosa che non si vede, almeno in questi momenti. Sarà mezzogiorno, e dalla parte croata, sull'«Avenia» (è strano, quanto patetiche possano risultare certe storpiature del francese) ci sono ragazzi appena usciti da scuola che parrebbero normali, non fosse che per un dettaglio: non camminano mai in gruppo. C'è qualche donna col sacchetto di plastica, qualche negozio aperto, qualche auto che transita strombettando, perché a Mostar si guida molto veloce. Ci raccontano che la «troupe» della tv italiana pochi giorni fa era qui, su questo stesso marciapiede: Marco, Alessandro e Dario intervistavano dei ragazzi. E cos'è la guerra? E' il cratere di una granata all'incrocio con la Stjepana Radica, proprio al centro: è caduta ieri pomeriggio. Sono le raffiche che anche in questo momento si sentono giungere dai palazzoni martoriati della Matje Gupca o del «Bulevar Narodne Revolucjie», ad appena trecento metri. La rivoluzione popolare, Mostar la sta vivendo nei costumi: quelli che continuano a fare in modo che la gente si aggrappi ad una sfibrata normalità che ogni secondo può essere interrotta da un boato. Dal 9 maggio ad oggi, da quando la nuova guerra è scoppiata, calcolano che su questo fazzoletto di terra croati e musulmani si siano scambiati settemila granate. Due musulmane contro otto croate, fino a un po' di tempo fa: adesso la disparità tende ad attenuarsi. E la rabbia? E' vedere i bianchi blindati dell'Unprofor, battaglione spagnolo, che passano velocissimi in colonna, senza fermarsi, senza curarsi dei richiami della gente, o dei ragazzi. Anche i tre giornalisti uccisi avevano chiesto la loro scorta, e gli era stato risposto di aspettare. Gli ordini sono severissimi: immischiarsi, mai. Neppure per solidarietà umana. E la cronaca? Cos'è la cronaca, a Mostar? A volte assume la forma orribile di una lente d'ingrandimento che pure qualcuno deve decidersi a puntare. Sentite questa storia. Dicci giorni fa, in Italia, nella redazione di questo giornale. Il Papa ha lanciato un altro appello dopo l'ennesima strage di bambini a Sarajevo, bisogna mettere as- sieme informazioni e ricordi per un articolo «sentito». La stessa mattina arriva da Mostar la notizia di altri quattro piccoli fatti a brandelli da una granata, nella parte Ovest. Poche righe in un pezzo, quasi a bilanciare il rendiconto della ferocia. Adesso la storia di quei bambini è qui, secca come possono esserlo poche righe su un registro, eppure amplificata dal racconto. Nel sotterraneo dell'ospedale croato di Mostar, fra altri bambini allineati a pochi centimetri l'uno dall'altro, ne parliamo con Alexandar Gopcevic, giovane medico con barba e giubbetto antiproiettile piazzato con noncuranza sul camice verde. «Quei bambini? Certo che me ne ricordo: Stavano giocando accanto a un campo di basket...». I nomi? Ulja Bojanic, dieci anni, Damir Rizuan, dodici, Emaila Meskic, dieci, e suo fratello Emil, più grande di tre anni. «Il primo l'abbiamo mandato all'ospedale di Spalato, aveva qualche possibilità di salvarsi, ma non ce l'ha fatta. Gli altri sono arrivati qui che erano già morti». Una granata musulmana che uccide quattro bambini musulmani: «Succede. Sa, nella parte Ovest di Mostar sono rimasti almeno quattromila islamici, ed anche un migliaio di serbi». Ma la storia non si conclude così, aveva un passato ed ha avuto un seguito. «Ricordo la madre di Emaila ed Emil Meskic: povera donna... Si chiamava Hafzija, mi pare: le erano rimasti solo quei bimbi, maschietto e femminuccia. Suo mari- to era morto l'anno scorso: pensi, prima della frattura coi musulmani combatteva assieme a noi, nell'«Hvo». L'«Hvo» è la milizia della Herceg-Bosna, quella che oggi si vorrebbe rinforzata da truppe regolari croate. Se ci sono, sono ben nascoste, traversando la Carnia erzegovese non abbiamo visto un solo concentramento di truppe. Ma questo è un altro discorso. «La madre era fuori di sé: urlava, dava testate contro il muro. Abbiamo potuto curare soltanto lei: sedativi, finché non si è ripresa. Poi, il giorno dopo, si è portata via i due piccoli per il funerale. Povera donna...». Sì, povera Hafzija: ieri sera l'hanno trovata sola in casa. Si era impiccata. Vogliamo usarla ancora, questa lente d'ingrandimento? Vogliamo farla girare per questo reparto, scorrendo da uno all'altro di questi lettini? Guardate Razija Peco, diciassette anni, una bellezza bruna e minuta: anche lei è musulmana, se la caverà. Due giorni fa il colpo di un cecchino le ha trapassato tut'e due le gambe. Guardate Mariofil Saric, quattordici anni, capelli cortissimi ed enormi, vivaci occhi scuri. A lui, il colpo di fucile l'ha raggiunto mentre girava in bicicletta, davanti casa, l'ha preso fra braccio e torace. Ed Ivica Perec, sedici anni? Dal nome si direbbe serbo: la granata che rischia di mettergli fuori uso una gamba non faceva distinzioni di nazionalità. Già, le nazionalità. E' incredibi¬ le come a Mostar adesso siano i metri a marcarne la presenza. Parti dalla periferia Ovest, dov'è la cattedrale già bombardata dai serbi («le piace? Era modernissima», ci diceva poco fa il vescovo, Ratko Peric. «Il giorno prima di morire anche i suoi colleghi della televisione erano venuti a filmarla»), percorri l'«Avenia», dove ancora i colori paiono stingersi nell'identico tremore di un'umanità rintanata. Poi, man mano che ti avvicini al «Rondò» , una piazza circondata da ville vuote e annerite, ti muovi sempre più circospetto lungo la vecchia via Lenjina, ecco che le differenze si colorano, fino a farsi minaccia vivida, terribilmente concreta. Duecento metri più avanti, in vista della Neretva, il lungofiume è divenuto prima linea. E' qui, dal ponte di Ribara all'antico e bellissimo «Stari Most», il Ponte Vecchio della Bosnia-Erzegovina, che i musulmani tengono anche la parte Ovest della città, e non arretrano. I ponti non ci sono più, e le due strade che costeggiavano l'antica, gentile architettura della città dei ponti sono spianate dei mortai, trasformate in trincee. Sulla via Alekse Santica, fra croati e musulmani non ci sono più di trenta metri. Sulla Adema Buca pochi di più. «Lì c'è quel che resta di un convento francescano - racconta Dragan Filipovic, giovane parroco della cattedrale. «Quattro religiosi vivono rintanati nelle cantine. Sa, quei suoi poveri colleghi della Rai avevano chiesto se fosse possibile filmarlo». Si fa sempre più straniante, questo viaggio nella città fantasma. Quasi che uno si trovasse a ripercorrere le tappe appena battute da colleghi più bravi, più coraggiosi, più sfortunati. Il brusco «stop» imposto dalle pattuglie dell'«Hvo» è un sollievo: da qui in poi non c'è alcuna garanzia, o alcuna probabilità, di salvare la pelle. Via, via, tornate indietro. Qualcuno dice qualcosa a proposito degli italiani: anche se in serbocroato, non suona molto amichevole. Nel reparto piazzato fra quel che resta di due portoni, c'è però qualcuno che parla il francese. «La situazione? Noi siamo circa quattromila, i musulmani dicono tre volte tanti. Ma non si capisce se sono tutti soldati: sapete, loro mischiano sempre combattenti e popolazione civile... Vedi quella montagna? E' il Velez, e là ci sono le truppe serbe. In qualsiasi momento, se lo decidono, possono battere con le artiglierie noi e loro, croati, musulmani, civili, bambini e ospedali». Ospedali? Siamo appena stati nel vostro, ma ci dicono che in quello di Mostar Est la situazione è ancora più tragica: niente acqua, né luce, né medicinali. «Dev'essere vero: qualche settimana fa abbiamo fatto passare una dottoressa musulmana che era ferita ad un braccio, già in preda alla setticemia. Qui hanno dovuto amputarglielo, l'hanno mandata all'ospedale di Spalato, ma è morta». I serbi, ci spiegano, sono prossimi a una nuova, grande offensiva nella Bosnia centrale. Ma se scatenassero l'attacco anche qui, i musulmani sarebbero spinti in avanti, dovremmo fermarli in tutti i modi...». Basta guardare una carta geografica: chiusi sulle sponde della Neretva, spinti alle spalle dall'esercito di Milosevic, i musulmani di Bosnia possono, debbono tentare una sola grande carta. Sfondare a Mostar, per poi scendere fino al mare, impadronirsi della sponda sinistra della Neretva fino a Ploce, lo sbocco a mare cui hanno sempre puntato. Poi, dopo quest'ennesimo, grande macello, forse si potrà trattare sulla base, come dicono i diplomatici, delle posizioni acquisite sul campo. Siamo usciti da Mostar portandoci dietro un carico di storie. Forse la più assurda è quella di Zoran Prskalo, 32 anni, un ingegnere che ci ha accolti con grandi pacche sulle spalle, grandi risate e una grande gamba in meno. Non ne poteva più dal ridere. Un anno fa una mina serba gli aveva portato via la gamba destra, fino a metà coscia. L'avevano portato fino a Padova per fargli montare una protesi. Cinque giorni fa, un cecchino musulmano lo ha colpito ancora, ancora alla gamba destra, esattamente due centimetri sotto il moncherino. «E adesso che farete? Direte a quelli di Padova che mi serve un'altra gamba finta? Ne avevo parlato anche con quei ragazzi di Trieste...». Eccoli ancora: Marco, Alessandro e Dario. Perché questo viaggio sulle loro orme si concludesse in modo degno, a questo punto avremmo dovuto raccontarvi anche dell'altro ospedale, quello musulmano, l'ultima cosa che hanno visto. Ma raccontarvi perché non ci siamo andati può essere un modo per spiegare, capire la loro fine. Ricordate i blindati dell'Unprofor che attraversavano Mostar all'inizio di questa giornata? Per tre giorni, dopo aver ottenuto tutti i permessi bosniaci, siamo andati alla sera dal comandante del battaglione spagnolo che ha giurisdizione su questo territorio, il colonnello Castro. Ha detto che sì, avrebbe potuto dare a noi e ad un altro collega italiano un passaggio fino a Mostar Est. Domani. E poi domani, domani ancora. Anche i tre colleghi della Rai avevano aspettato, fino ad avventurarsi con un convoglio dell'Unhr, l'organizzazione peri rifugiati. E' un uomo simpatico, il colonnello Castro, piccolo, rotondetto, con un bel paio di baffoni. Ci ha detto che sì, «domani» ci avrebbe portati con un blindato a Mostar Est fino alla postazione Onu. Di lì in poi, liberissimi di farci una passeggiata, o una corsa, fino all'ospedale, attraversando un piazzale battuto da cecchini, granate e quant'altro. Dalla cooperazione italiana, dall'ambasciata di Zagabria hanno cominciato a piovere telefonate che ci intimavano in ogni modo di non andare. '(Avventurarsi a piedi in quella zona sarebbe pazzesco». Poi ieri sera il colonnello Castro si è spazientito. Ha spiegato che, una volta scesi dal blindato Onu, regolarsi è facile: «Si tiran da Este», basta strisciare lungo il muro dei palazzi. «Si bombardèan da Ouste» allora conviene scappare indietro. Abbiamo provato a chiedergli se, per caso, il suo blindato bianco con le insegne delle Nazioni Unite non avesse potuto fare una piccola deviazione, duecento metri al massimo, per farci giungere più vicini all'ospedale musulmano. Risposta: «El blindado no es un taxi». Grazie, comandante, per la «fraternidad latina». Anche a nome di quei tre che, il suo taxi, non l'avevano potuto prendere. Giuseppe Zaccaria «Ho perso una gamba ora un cecchino m'ha distrutto la protesi» «Ho pora udistruCiò cheponte dda una b Ciò che rimane del celebre ponte di Mostar colpito da una bomba (foto reuterj I tre reporter italiani uccisi da una bomba a Mostar A sinistra, Marco Luchetta Qui accanto, Alessandro Ota e sotto, Dario D'Angelo