I timidi apostoli dell'ayatollah

I timidi apostoli dell'ayatollah I timidi apostoli dell'ayatollah Ritorno in Iran, quindici anni dopo ANNIVERSARIO NEL REGNO DEI MULLAH QTEHERAN UELLA sera di 15 anni fa, l'aereo decollò dall'aeroporto di Parigi Charles De Gaulle. L'ayatollah Khomeni sedeva in «first class». Stava guardando fuori dal finestrino e non fece caso quando gli rivolsi la parola. Poi gli si avvicinò un reporter francese e, finalmente, Khomeini si voltò. «Adesso stiamo sorvolando il territorio iraniano. Che cosa prova dopo così tanti anni di esilio?». Le labbra dell'ayatollah si mossero appena e mormorò: «Hichi». Era la parola farsi per dire «nulla». Khomeini non provava nulla nel tornare nel Paese che stava per precipitare in una rivoluzione. Nelle settimane successive, quella risposta avrebbe scandalizzato i numerosi iraniani che erano fuggiti in Occidente. Di Khomeini e della sua ideologia sapevano quanto i fuoriusciti zaristi di Marx e di Lenin. Il Corano impone l'amore assoluto di Dio: Khomeini non sentiva nulla perché non poteva permettersi di provare amore per un luogo o per una persona in quanto tali. L'ayatollah fu acclamato da una folla di quasi un milione di persone all'arrivo a Teheran, il 1° febbraio '79. Altri due milioni di persone si accalcarono sulla strada che dall'aeroporto Mehrabad lo condusse nel centro della capitale e si spostò fino al cimitero di Behesht-e-Zahra, dove Khomeini si inginocchiò davanti alle tombe di coloro che erano stati uccisi durante le dimostrazioni contro lo scià. L'atmosfera di quelle ore era unica: una sorta di frenesia millenaristica avvolse tutto il Paese. La gente urlava e si batteva il petto in un'estasi di speranza e di gioia. Una delle credenze fondamentali del credo sciita è quella dell'Imam Scomparso, Muhammed al-Mehdi, che si sottrasse alla vista degli uomini nell'anno 880 e che farà ritorno alla fine dei tempi, portando giustizia a tutti gli uomini: il ritorno di Khomeini fu accompagnato da un'emozione religiosa molto simile a quella che avvolge da sempre l'Imam Scomparso. L'ayatollah - pensava il popolo avrebbe sradicato la corruzione e la sottomissione del Paese ai modelli occidentali e avrebbe fatto trionfare il regno della fede. Avrebbe dato vita alla Repubblica islamica. Quindici anni dopo, cosa ne è stato di questo progetto? Il Paese continua a essere governato con le rigide norme islamiche. Le donne non possono apparire in pubblico a capo scoperto. L'alcol è proibito. I mullah hanno un potere sempre grande. Tutti i giornali dedicano molto spazio ai tempi religiosi e le preghiere quotidiane sono trasmesse dalla televisione di Stato. Noi occidentali pensiamo di conoscere l'Iran: abbiamo visto le immagini televisive delle di- mostrazioni di piazza, con le folle di donne avvolte nei chador e di uomini barbuti che gridano: «Morte all'America!». Abbiamo visto le scene di isteria collettiva durante i funerali di Khomeini nell'89. In realtà, l'Iran non è uno Stato totalitario come l'Iraq o la Siria, ma la vita resta dura e piena di proibizioni. «Non c'è posto per il divertimento nell'Islam», ha detto una volta Khomeini e da allora ha fatto sempre di tutto per tener fede a questo principio. Solo negli ultimi anni di vita, quando crebbe l'influenza del suo delfino, il moderato Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, sono cominciati primi cambiamenti. Alle squadre della polizia speciale rivoluzionaria, i «komitehs», è stato revocato il diritto di perquisire le case dove si sospettava che non si seguissero i precetti islamici. Oggi, rimangono solo poche pattuglie che controllano le donne per le strade: se le trovano imbellettate o con abiti troppo sgargianti le rimproverano brutalmente, ma neanche le violenze scoraggiano le ragazze dal mettersi il rossetto. Quanto agli orrori di cui spesso in Occidente si parla - la lapidazione per le adultere e il taglio delle mani ai ladri - sono in drastico calo. Gli iraniani sono i latini dell'Asia: pieni di vita e insofferenti delle regole troppo rigide. Mi ha detto di recente un amico: «Sotto lo scià, bevevamo in pubblico e pregavano in privato. Adesso facciamo l'esatto contrario». Negli ultimi anni, si sono sviluppate in Iran potenti reti sotterranee che forniscono quasi tutto ciò di cui si ha bisogno. Poche settimane fa, per esempio, le autorità hanno annunciato di aver sgominato un'organizzazione che vendeva alcolici porta a porta. Funzionava così: si suonava il campanello di quella che passava per un'azienda di costruzioni. «Di quante persone ha bisogno e quando dovrebbero cominciare?», ci si sentiva chiedere. Il giorno sta¬ bilito, arrivavano gli «operai», vale a dire le casse pattuite, tutte di ottima vodka. Adesso è impossibile immaginare come si sarebbe trasformata la Repubblica islamica se ne avesse avuto il tempo. Appena 20 mesi dopo il ritorno di Khomeini, nell'80 Saddam Hussein invase l'Iran. Ai suoi generali, il dittatore iracheno disse che la guerra sarebbe durata quattro giorni. Durò invece otto anni. All'inizio, il conflitto fu accompagnato da una feroce guerriglia urbana guidata dai mujaheddin-e-Khalq, un movimento estremista che aveva appoggiato la rivoluzione khomeinista ma che poi era stato messo in un angolo dal regime islamico. Mentre numerosi ministri venivano uccisi in un crescendo di attentati, nel governo cominciò a diffondersi un clima di quasi-isteria: come conseguenza, fu dato il via a una campagna di repressione selvaggia. Anche oggi i diritti umani continuano a essere scarsamente rispettati: molte persone sono perseguitate e gli agenti iraniani continuano a uccidere gli oppositori del regime che si sono rifugiati all'estero. Il presidente Rafsanjani ha preso le distanze dalla condanna a morte di Salman Rushdie per il libro i «Versetti Satanici», ma la taglia sulla sua testa non è stata revocata. Nel governo, comunque, cominciano a sentirsi voci discordanti. Se Rafsanjani è un moderato che si sforza di migliorare i rapporti del suo Paese con il mondo esterno, non gode certo di un potere assoluto. Ogni ministro cerca di conquistarsi un ruolo a scapito dei colleghi. Le decisioni restano così incerte e le congiure frequenti. L'economia, intanto, è in un periodo di stagnazione. Le grandi industrie occidentali hanno interrotto quasi del tutto i rapporti con l'Iran, se si esclude la vendita delle merci che vengono pagate in valuta pregiata. E la situazione sarebbe grave anche senza i dissidi interni tra i diversi ministeri. Le entrate petrolifere iraniane, infatti, sono metà di quelle del '79, mentre da allora la popolazione è cresciuta di quasi due terzi. La corruzione è molto diffusa. I mullah sono diventati avidi e sempre meno affidabili, mentre i burocrati, da sempre malpagati, cercano in ogni modo di sopravvivere. La pratica delle tangenti è diffusissima, dal basso fino ai livelli più alti della gerarchia. I poveri, nel cui nome è stata scatenata la rivoluzione del '79, sono tra coloro che soffrono di più, a mano a mano che l'economia peggiora. Rafsanjani godeva di grande popolarità, ma il suo seguito si sta disfacendo un po' alla volta, vista l'incapacità di imporsi ai suoi riottosi ministri. Resterà in carica ancora tre anni e mezzo, poi non si sa chi lo sostituirà. Molti iraniani ritengono che saranno i militari, o forse le guardie della rivoluzione, a farsi avanti. Potrebbe esserci un'altra rivoluzione, anche se, al momento attuale, nessun gruppo dell'opposizione ha la forza e l'influenza per cominciarla. Non c'è dubbio che l'Occidente ha tutto l'interesse a sostenere Rafsanjani, ma i suoi rivali all'interno del governo potrebbero sfruttare questo sostegno per accusarlo di aver tradito gli ideali della rivoluzione, vendendosi ai suoi peggiori nemici. In effetti, il regime non ha mai perduto la sua istintiva ostilità nei confronti dell'Europa e dell'America. Contemporaneamente, chiudendosi alle influenze esterne, l'immagine all'estero dell'Iran è precipitata. Egitto e Israele accusano Teheran di finanziare e addestrare i fondamentalisti islamici, sebbene - in realtà - gli aiuti maggiori alla «Fratellanza musulmana» e a «Hamas» siano arrivati dall'Arabia Saudita. Ma, a Washington, puntare il dito contro Riad non produce gli stessi effetti che accusare Teheran. John Simpson Copyright «The Guardian» e per l'Italia «La Stampa» Impiccata in carcere un'adultera Era accusata di aver assassinato il marito Il presidente iraniano Rafsanjani e a sinistra l'ayatollah Khomeini al suo ritorno a Teheran, nel '79 [FOTO REUTERJ