Ma esiste l'uomo padano? di Alberto Papuzzi

discussione. Lo storico Crainz: un carattere creato dai conflitti discussione. Lo storico Crainz: un carattere creato dai conflitti Ma esiste l'uomo padano? Dai braccianti dell'SuO alpds e Bossi "7n~| OLONI, bergamini, fami1 ' gli; o paesani, strapazzoI ni, obbligati. Più in gene1 i rale salariati agricoli, riI battezzati secondo le loro mansioni - mungitori, bifolchi, cavallanti, manzolai, mietitori, raccoglitori - e suddivisi in una rete gerarchica fra capi, sottocapi e garzoni. Ultimi venivano i «giornalieri di piazza», cioè gli avventizi veri e propri. E' l'universo dei braccianti padani, il popolo dei poderi e delle cascine: il vero uomo padano per un secolo, dalla metà dell'800 alla fuga dalle campagne negli Anni 50. Nelle risaie del Vercellese, nella Lombardia irrigua, nell'opulenta Bassa mantovana e cremonese, nelle paludi bonificate del Polesine e del Ferrarese, il bracciante è l'immagine della Valle del Po, come appare da un affascinante saggio: Padania, dello storico Guido Crainz, docente all'Università di Teramo, che l'editore Donzelli manderà nelle librerie a metà mese. Siamo di fronte alla storia collettiva di un mondo che è scomparso, schiacciato e cancellato dalla meccanizzazione agricola e dall'industrializzazione delle campagne del secondo dopoguerra, finita con una sconfitta sociale e politica: che cosa resta delle lotte agrarie che non più di quarant'anni fa mobilitavano decine di migliaia di braccianti? Riscoperta e documentazione di una cultura arcaica di cui rimangono fragili tracce sotto la crosta di quel moderno impero che è la piccola impresa del Nord-Est, ricostruzione passo passo dei conflitti che agitarono e spaccarono, talora con una violenza oggi impensabile, la vita contadina, con i suoi rapporti di classe e con le sue ideologie e convinzioni, Padania però ha anche il potere di rievocare la filigrana umana dei processi storici e sociali: quasi che dietro la narrazione storiografica si alternassero i fotogrammi di un film come Novecento di Bertolucci o le pagine di un romanzo come II mulino sul Po di Bacchelli. «La bqje, la bqje e de boto la va de sora». Bolle, bolle e presto trabocca. Da questa invettiva, che risuonava nelle campagne del Mantovano e del Polesine, presero nome le prime grandi rivolte dei braccianti: i moti di «La boje!», fra il 1884 e il 1885, contro la precarietà del lavoro e del salario. «Schiere innumerevoli corrono la provincia con la carriola e il badile chiedendo pane e lavoro - si leggeva sulla stampa polesana dell'epoca cercando alla ventura a chi vendere per la giornata e a vile prezzo le loro braccia disoccupate». Incendi di fienili, tagli di viti, occupazioni di poderi, devastazioni, saccheggi. «St'inverno zogaremo a le boce co le teste dei siori», si grida nelle piazze. Sui muri appaiono manifesti contro i padroni con la minacciosa firma: «LA SOCIETÀ' SEGRETA vi avisa». Per reprimere il movimento saranno impiegati quattromila militari fra cavalleria e bersaglieri e ottocento carabinieri. Questi conflitti, che si ripetono ciclicamente fino all'avvento del fascismo al potere, sono tuttavia - secondo Crainz - il cro¬ giolo che modella la società civile delle campagne padane. I moti bracciantili sarebbero stati la causa principale di quella forza delle istituzioni civili, sociali e politiche che caratterizza la Padania. Attraverso esperienze come le leghe rosse e bianche, le cooperative di mutuo soccorso, i sindacati dei salariati e degli agrari, le mediazioni degli enti locali, soprat¬ tutto la necessità di contrattare e ricontrattare condizioni di vita, calendario dei lavori, quote di servaggio, tariffe salariali, si sviluppa una tradizione di passioni politiche. Non è un caso se queste campagne generano il socialismo dei Prampolini, il sindacalismo di Miglioli, il fascismo dei Farinacci, il leghismo di Bossi. Dietro il pidiessino modenese o il leghista man- tovano c'è anche qualcosa del bracciante di ieri. Anche le vicende del «triangolo della morte» vanno ricondotte, nella ricostruzione di Crainz, alla lunga sequenza di ribellioni e vendette che segna la storia del bracciantato padano: «Le vittime non sono tanto i principali responsabili del fascismo o dell'Agraria - scrive, ad esempio, a proposito del Ravennate -, ma i responsabili di lunghe catene di soprusi». La fine di tutto arriva con l'industrializzazione e la fuga dalle campagne. Circa 45 anni fa. La vera rottura non è la diffusa disoccupazione, non è l'espulsione dalle cascine, ma il fatto che per la prima volta nella sua storia il bracciante non si vede più legato solo al lavoro dei campi. Il mondo bracciantile diventa «un disvalore» e la vita in campagna appare «una condanna». Gli ultimi grandi scioperi, nel 1950, con violenze, danneggiamenti, scontri, sono l'inutile prezzo pagato al tramonto di una cultura. Il «mondo piccolo» del Don Camillo di Guareschi stava diventando il mondo alienato del Grido di Antonioni. Da un lato era mutata la struttura stessa delle campagne, poiché gli agrari, per spegnere la controparte, avevano dato il via a una strategia di frazionamento delle proprietà, dall'altro attraverso la televisione e lo scooter - come scriveva Italo Calvino, sul Contemporaneo, nel 1954 - si affaccia sui poderi «il grande sogno» della società dei consumi. Alberto Papuzzi Una tradizione di passioni politiche, un crogiolo per modellare la società Una scena del film «Novecento» di Bernardo Bertolucci grandioso affresco di un secolo di vita in Padania

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