Lewis: a questa pace dobbiamo credere di Fiamma Nirenstein

Lewis: a questa pace dobbiamo credere Lewis: a questa pace dobbiamo credere Ipalestinesi sono sinceri, ma attenti agli islamici IL GRANDE ISLAMISTA DI PRINCETON TEL AVIV ERNARD Lewis, emeritus professor dell'Università di Princeton, è forse il più autorevole islamista vivente. Chiunque voglia capire il mondo arabo ha letto i suoi libri («La rinascita islamica», «Semiti e antisemiti» e tanti altri, pubblicati in Italia dalla casa editrice II Mulino). Sono testi che gli somigliano, molto: quando lo incontriamo nel residence di Tel Aviv situato di fronte alle onde battenti del Mediterraneo, a tutt'oggi l'unica frontiera transitabile per gli israeliani, ci accoglie con la sua naturale allegria, il suo scetticismo, l'ironia e l'amore per la cultura araba ed ebraica insieme. Parla arabo con il manager dell'albergo, ebraico al telefono con qualcuno che chiama dall'Università di Tel Aviv. E' in Israele per alcune lezioni, ma domani sarà ad Istanbul. Bernard Lewis, un ebreo che ha sempre studiato la cultura araba amandola, e amando Israele, e mai rinunciando all'Occidente, è la migliore provetta in cui possiamo sperimentare, concettualmente, il processo di pace che proprio ieri a Davos si è mostrato in tutta la sua forza dirompente quando Peres e Arafat sono saliti sul palco tenendosi per mano. Lei, che parla arabo con i leader arabi, e ebraico con gli ebrei, che ha scritto tanti libri sulla storia del Medio Oriente, lei crede nelle strette di mano che tutti abbiamo visto alla televisione? «Sì. Io ci credo. Per gli arabi i simboli sono di gran lunga più importanti che per noi. Le faccio un esempio: gli arabi di Gerusalemme avevano diritto di voto e sapevano bene che per loro eleggere il vecchio sindaco liberale Teddy Kollek era molto meglio che eleggere Ehud Olmert, l'uomo della destra. Eppure hanno preferito astenersi e lasciare che Olmert vincesse, a simboleggiare la loro assenza dal governo israeliano di Gerusalemme; gli costa caro, ma lo fanno lo stesso...». Tuttavia, quante strette di mano fasulle abbiamo visto in Medio Oriente, quanti sbaciucchiamenti interessati e poi dimenticati o traditi... «Ma qui non si tratta di una mossa politica con un tornaconto immediato: ne sia prova il fatto che quello che gli arabi avrebbero ottenuto dal consesso internazionale nel '36, nel '47 e nel '49 sarebbero state tutte per loro soluzioni territorialmente assai migliori di quelle che possono ottenere oggi. Si tratta invece di una scelta teorico-pratica fondamentale che in parole povere suona così: abbiamo capito che Israele non ha nessuna intenzione di sparire, che è venuto il tempo di scendere dalle posizioni di principio a quelle di compromesso, e quindi di fare la pace». Una politica opposta a quella tradizionale della Agenzia Ebraica, che in sostanza diceva: dammi quello che puoi oggi, e poi si vedrà. «Esatto; ma gli arabi a differenza degli ebrei hanno dei vincoli culturali e di comportamento molto molto robusti. E le varie leadership locali si controllano a vicenda perché non vi siano sgarri». Che cosa è dunque successo perché si rompesse l'incantesimo? «I capi arabi nel passato hanno sempre avuto un padrone, un punto di riferimento esterno, da Hitler, ai russi, a Saddam Hussein, c'era sempre qualcuno a comandare e ad aiutare. Adesso tutti i punti di riferimento esterno sono caduti, l'Urss è finita, il Terzo Reich è solo una spiacevole memoria. Esiste invece un nemico comune a tutti i regimi attuali ed anche ad Arafat...». Quello c'era già: Israele. E dietro Israele, l'Occidente. «Ma molto prima dell'Occidente, oggi il vero nemico è il fondamentalismo islamico. Il comunismo e il fascismo gli arabi non hanno mai saputo molto bene che cosa fossero; quindi non li temevano. Ma il fondamentalismo? Quello lo conoscono benissimo. E Assad, Mubarak, re Hussein, Arafat, tutti quanti sanno che è molto peggio di Israele. In fondo, che cosa può fare Israele contro di loro? Restituire un po' meno territori. L'islamismo, invece, può spazzarli via tutti». Da come tutti quanti si comportano, compreso Arafat, che non si è mai deciso a condannare gli attacchi di Hamas, o Assad, che copre il terrorismo internazionale, sembra piuttosto che ancora le attuali leadership cerchino di tenersi buoni i fondamentalisti. «E' una politica che ormai non sembra possibile molto a lungo. Forse lo è stata, ma oggi i fondamentalisti sono diventati troppo forti: è a loro che non conviene più il compromesso. L'Iran li appoggia, in Tunisia potrebbero prendere il potere facilmente, in Marocco e in Egitto sono robusti. Ovunque puntano alla maggioranza, anche nei territori occupati...». Allora invece che auspicare la democrazia nel mondo arabo, bisogna averne paura, se si desidera che il processo di pace vada avanti. «Ancora non direi questo: per il momento nei Paesi dove c'è una graduale o meglio una parziale democratizzazione, nei Paesi come l'Egitto, la Giordania, il Marocco con elezioni semilibere e una certa libertà di stampa, la maggiore circolazione delle idee porta la gente a saper valutare meglio il valore della pace». Dunque la democratizzazione non è per forza foriera nel prossimo futuro di guai fondamentalisti. «Per ora non lo è se presa a piccole dosi: per la cultura islamica la democrazia è come il cortisone. Troppa, ucci- de il paziente». Secondo lei il fondamentalismo può di fatto prendere il potere? «E' possibile. Tutti i regimi sono minacciati. E' la grande incognita del processo di pace. E senza Assad, senza Arafat, senza Hussein, sarebbe il caos». Lei considera più significativa la stretta di mano di Clinton con Assad o quella di Rabin con Arafat? «Arafat è quello che ha compiuto la svolta maggiore. Ha, per così dire, liberato Israele dal peso del diniego morale, del diniego più pesantemente caratterizzante la fase appena conclusasi della vita mediorientale. Con quella stretta di mano ha svelato una diversa realtà, o meglio ha dato il via a una diversa possibilità cognitiva della realtà stessa. Ha, se mi consente, introdotto qualche elemento di razionalità nel folle Medio Oriente. E questo era alquanto difficile da realizzare e da prevedere. Di Assad invece possiamo prevedere quasi tutto: di lui tutto si può dire, fuorché che non si sia mosso sempre in base a un principio di realtà. E' un duro, è privo di ogni regola morale, ma si sa che mantiene la sua parola di dittatore e che conosce molto bene fin dall'inizio il suo tornaconto». Anche i palestinesi lo conoscono. «Sì, ma solo da poco: basta pensare alla loro presa di posizione a fianco di Saddam Hussein durante la guerra del Golfo. Assad invece è sempre un politico accorto. Peccato che, mi si dice, la sua salute è alquanto malferma. E i fratelli musulmani lo circondano d'appresso. D'altra parte, senza di lui non vi è nessuna pace possibile né con il Libano, né con la Giordania, che devono ogni volta letteralmente chiedere il permesso per qualsiasi mossa facciano. Si racconta spesso quella famosa storia (vera) di un colloquio fra un dignitario giordano e un israeliano: l'israeliano si lamenta che il suo Paese sia circondato solo da nemici. Il giordano gli risponde: "Non è nulla in confronto al pericolo che comporta essere circondati da amici e da fratelli"». C'è chi dice tuttavia che a Israele non convenga in un momento di grande debolezza dei suoi avversari ma di terrorismo crescente avventurarsi in concessioni territoriali. «Il terrorismo purtroppo non è destinato a scemare: costa pochissimo, rispetto ai grandi effetti che ottiene. Ma quanto alle concessioni territoriali, penso che Israele faccia benissimo a provarci. Israele ha dalla sua il tempo della sperimentazione. Adesso comincia con Gerico e Gaza, può vedere se funziona, e in caso non funzioni può sempre tornare sui suoi passi. Se Rabin sbaglia tutt'al più non lo rieleggono e va a farsi un anno sabbatico in un'università americana. Se Arafat sbaglia, con tutta probabilità lo ammazzano». Secondo lei dunque il prezzo che pagano i palestinesi è maggiore di quello che pagano gli israeliani? E' una tesi un po' paradossale, visto che i palestinesi stanno per guadagnare uno Stato. «Fino ad ora i palestinesi hanno speso molto di più degli israeliani, togliendo il tabù del commercio e della comunicazione. Dopo quella famosa stretta di mano non solo gli arabi, ma tutto il mondo si sente libero di trattare, di commerciare e di scambiare esperienze con Israele. Più avanti anche gli israeliani si prenderanno dei terribili rischi. Ma saranno rischi calcolabili in base all'esperienza di questi prossimi anni». Fiamma Nirenstein