Il sangue bagna Venezia di Masolino D'amico
Folto pubblico al Carignano per il dramma di Simone Weil con la regia di Luca Ronconi Folto pubblico al Carignano per il dramma di Simone Weil con la regia di Luca Ronconi Il sangue bagna Venezia Congiurati in una città-caldaia TORINO. Narra l'abate di Saint-Réal che nel 1618 dei congiurati furono a un passo dall'impadronirsi della Repubblica di Venezia allo scopo di consegnarla alla Spagna, ma che all'ultimo momento uno di loro si pentì e svelò il complotto in cambio del perdono per i suoi compagni. Sventato il pericolo, le autorità decisero peraltro di non rispettare il patto, e trucidarono i prigionieri. L'episodio, non confermato dalla storiografia ufficiale della Serenissima, attirò nell'anno 1680 il commediografo inglese Otway, che vedendoci un buon conflitto fra amore e onore (uno dei capi della sua sommossa ha sposato la figlia di un senatore) ne ricavò una fortunata tragedia, rielaborata in seguito, fra gli altri, da Hoffmansthal e dal nostro Bontempelli. A sua volta ispirata dal tema, la grande, come definirla? pensatrice, moralista, teologa francese Simone Weil ne concepì un nuovo adattamento teatrale, conservando dai suoi predecessori il titolo «Venezia salva» - e poco altro. Mai completata, la tragedia della Weil, di cui Adelphi recuperò una ispirata traduzione di Cristina Campo, esiste allo stato di tronco, con alcune scene ed alcune tirate e lo schema di quelle mancanti. Essenzialmente, abbiamo momenti della preparazione del colpo, e tutto il dopo-denuncia. Si comincia con la presentazione dell'amicizia sviscerata fra i due esecutori principali, Pierre e Jaffier, il primo dei quali cede il comando dell'operazione al secondo per vincerne definitivamente l'indecisione e perché lo ritiene obbiettivamente più meritevole; chi maneggia le fila è comunque l'inviato degli spagnoli, Renaud, il quale pronuncia una lunga lezione di Realpo- litik spiegando come sia indispensabile, quando si opera una conquista, infierire con la massima crudeltà possibile allo scopo di fiaccare nei vinti ogni speranza di libertà. Nell'epilogo Jaffier ha già confessato, e campeggia la Realpolitik questa volta del Senato veneto, cui la ragion di Stato consiglia di giustiziare i congiurati. Jaffier si disprezza e finisce ucciso dalla popolazione. Da questi lacerti sembra dunque che alla Weil, la quale scrive durante gli orrori della seconda guerra mondiale, interessasse mostrare come non esistano conflitti puliti, ma anzi come ogni conquista comporti la cinica distruzione della civiltà soccombente; e Jaffier e altri si dilungano sulla bellezza di Venezia, una bellezza che i suoi artefici si illudono possa salvarli da sola, laddove Renaud spiega che proprio i capolavori più amati andranno cancellati, nuove chiese di stile spagnolo sorgeranno al posto delle architetture italiane: egli è come Cortez, come Pizarro. Ora, proprio questa bellezza che finirà per commuovere Jaffier e spingerlo alla delazione è vistosamente assente dall'allestimento di Luca Ronconi al Carignano, che la scenografia con tubi e portelli di Carmelo Giammello, quasi unica per tutta l'azione, fa pensare alla gigantesca sala caldaie di un piroscafo, oppure ai bruciatori di un grattacielo. Inoltre l'ambiente è allagato, e i personaggi maschili, quasi tutti in tuta e con stivali gommati (i costumi grigi e marroni, molto austeri, sono di Ambra Danon), paiono idraulici finalmente venuti a riparare il guasto; in effetti, delle martellate da dentro che accompagnano un lungo stralcio della seconda parte confortano in tal senso. Tanta acqua, in pozze nelle quali si affonda fino alla caviglia, e anche inizialmente percolante da certe docce poi rimosse, serve, si immagina, a «fare» Venezia, come avveniva, ma ironicamente, nella «Bottega del caffè» di GoldoniFassbinder proposta da Bruni e De Capitani. Ma è una Venezia orribile, claustrofobica, postindustriale - le raffinerie di Marghera? -, il contrario insomma di quel regno della luce che le forze dell'oscurantismo vogliono cancellare. La tetra cornice è in ogni caso caratteristica delle intenzioni quaresimali di tutto lo spettacolo, in cui il solo Giuseppe Pambieri ha la forza di opporsi a uno stile di dizione astratto, frantumato, falsamente declamatorio (anche quando vengono dette le didascalie o gli appunti della Weil, con effetto dunque non chiarificatore, ma ritualistico), e porge con efficacia l'ideologia di Renaud. Gli altri tornando agli estraniamenti delle avanguardie di trent'anni fa si esibiscono in sterili esercitazioni vocali e rendono così ardua anche la semplice comprensione della storia, caso limite essendo Massimo Popolizio, che segue la spietata impostazione fino all'eroismo, con conseguenze particolarmente lancinanti nell'interminabile finale. Pubblico, malgrado la relativa brevità delle operazioni (2h 45' intervallo compreso), provatissimo; si replica fino all'I 1 febbraio. Masolino d'Amico Giuseppe Pambieri ottimo interprete di uno spettacolo claustrofobico Da sinistra Lorenzo Loris, Pino Michien/i, Francesco Benedetto, Giuseppe Pambieri, Alfonso Veneroso, Graziano Piazza Marta Richeldi e Mauro Avogadro in una scena dello spettacolo al Carignano A destra, il regista Luca Ronconi
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