Di Pietro: non ho casacche di Franco Pantarelli

Il pm spiega Tangentopoli all'Università di New York e affronta i rapporti politica-giustizia Il pm spiega Tangentopoli all'Università di New York e affronta i rapporti politica-giustizia Di Pietro: non ho casacche «I giudici devono evitare i partiti» NEW YORK NOSTRO SERVIZIO «Il colore politico non conta, non accetto che qualcuno mi costringa a indossare una casacca che non mi appartiene. Come cittadino posso pensare quel che voglio, ma come magistrato devo disinteressarmi del colore della casacca indossata da quelli che ho di fronte. E per costruire dei teoremi ho bisogno innanzitutto di prove»: è stato categorico Antonio Di Pietro giovedì sera, alla New York University, dove è stato invitato a tenere una conferenza («quando ero bambino sognavo tante cose, ma a un sogno come questo non mi ero mai azzardato»). L'invito che annunciava la conferenza lo aveva presentato come «the leading judicial figure» delle «Tangentopoli investigations»; il preside della New York University, James L. Oliva, lo aveva poco prima definito «un eroe di proporzioni mitiche» e il pubblico lo aveva accolto con un applauso trionfale. Il tema della conferenza, «L'evolvere dei sistemi di corruzione nella moderna democrazia», voleva avvertire che si sarebbe trattato di una dissertazione «in astratto» su ciò che accade alle democrazie in questa fase del loro sviluppo storico ed economico, senza confini geografici. «La corruzione non è solo un fenomeno italiano», anzi «l'Italia si è dissanguata per fare pulizia». Ma che si sarebbe finito per parlare anche della Tangentopoli italiana era inevitabile. Così, ecco arrivare a un certo punto una domanda provocatoria, che parte da Gherardo Colombo «ex militante della sinistra extraparlamentare», prosegue con D'Ambrosio che «è considerato del pds», insiste con Borrelli «prossimo ministro di Grazia e Giustizia nel governo delle sinistre», riconosce che lui, Di Pietro, forse con il pds non ha a che fare «dati i suoi trascorsi di poliziotto» ed approda al quesito sull'«abbandono della pista rossa» da parte della Procura di Milano e sul suo «recupero» da parte della Procura di Roma. Di Pietro risponde, come si è detto, con la parabole delle casacche colorate, e solo l'accenno ai teoremi impossibili senza prove sembra tradire il pensiero che forse la questione, più che quella dell'abbandono dei giudici milanesi, è il recupero di quelli romani. Per il resto, la sua è una vera dissertazione astratta, senza nomi e cognomi, «un po' perché come magistrato sono tenuto al silenzio sul lavoro che sto svolgendo e un po' perché l'avvicinarsi delle elezioni richiede una particolare riservatezza». Via quindi alle sue considerazioni «astratte» sulle nuove for¬ me di corruzione. Le tipologie sono tre. Una è quella definibile «concussione ambientale», in virtù della quale un imprenditore deve pagare il suo dazio «solo per entrare nel club», cioè non per vincere la gara di un appalto pubblico ma semplicemente per parteciparvi. Un'altra è la «corruzione ambientale», in cui l'imprenditore stabilisce un rapporto privilegiato con il politico e lo «premia» per i favori che quello gli fa. E un'altra ancora è qualcosa di giuridicamente poco definibile (e quindi poco perseguibile) per via della sua natura un po' evanescente: in sostanza si tratta dell'uso di dare soldi ai politici non in relazione a un preciso favore ottenuto, ma solo in vista di favori futuri, non ancora definiti. «Un investimento che prima o poi tornerà utile», dice Di Pietro, spiegando che in questi casi, mancando l'aggancio concreto per esempio con un appalto ottenuto, l'unica possibilità di perseguimento è data dal fatto che comunque quegli «investimenti» sono occulti e quindi vanno contro la legge sul finanziamento dei partiti. Se questa è la realtà venutasi a creare, il problema principale è quello di «distinguere, distinguere sempre», sia per i magistrati che per l'opinione pubblica. Nel caso degli imprenditori, infatti, una cosa è uno che si è trovato «costretto a pagare il pedaggio per lavorare» (quindi una vittima della «concussione ambientale»), e un'altra cosa è uno che ha «sistematicamente approfittato dei suoi privilegi comprati», ed è quindi un artefice della «corruzione ambientale». Nel caso dei politici, «va valutato diversamente quello che impone alle imprese il dazio di partecipazione da quello che si abbandona a un'attività clientelare». Fra loro, dice Di Pietro, c'è la stessa differenza esistente «fra corruzione e raccomandazione». E in quest'ultima pratica «chi è senza peccato scagli la prima pietra». Franco Pantarelli ■:::'>::;::::::::':V:^"::,::::::>v::::::::-:'::: Antonio Di Pietro era invitato alla New York University

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