Rea visionario principe dei vicoli di Domenico Rea

Società' e Cultura Da «Spaccanapoli» a «Ninfa plebea»: un cacciatore fra odori e sapori del Sud Rea, visionario principe dei vicoli Lo scrittore stroncato a 72 anni da un ictus NAPOLI. Lo scrittore e giornalista Domenico Rea - che lo scorso anno aveva vinto il Premio Strega con il romanzo Ninfa plebea (ed. Leonardo) - è morto l'altra notte a Napoli all'età di 72 anni. Dal 9 gennaio scorso era ricoverato in ospedale, dopo essere stato colpito da un ictus. Le sue condizioni si sono aggravate negli ultimi giorni, con l'insorgere di problemi cardiocircolatori e di un'insufficienza respiratoria. Numerosi i messaggi di cordoglio giunti nell'abitazione dello scrittore, sulla collina di Posillipo. Alla moglie, Annamaria, e alla figlia, Lucia, hanno espresso tra gli altri il loro cordoglio il presidente del Senato Giovanni Spadolini, il presidente della Camera, Giorgio Napolitano, il segretario del pds Achille Occhetto e il sindaco di Napoli, Antonio Bassolino, che ha definito Domenico Rea «una delle voci più significative della città». Oggi i funerali. P ER tutta la sua vita, dopo l'esordio clamoroso dei racconti di Spaccanapoli, nel 1947, Domenico Rea ha fatto di tutto per scuotere via da sé l'etichetta di scrittore istintivo, di estrazione e di spontanei modi popolareschi, di interprete colorito e favoloso del mito dell'anima napoletana pronta sempre a mescolare il tragico e il grottesco, la commedia e il dramma, il reale e il fantastico, la scomposta allegria e l'eccesso delle lacrime. Malgrado le molte incursioni, soprattutto dopo il romanzo Una vampata di rossore, del 1959, nello studio del folklore, della storia minore, dei costumi, di Napoli, e malgrado la stesura di aforismi, pensieri, considerazioni critiche, osservazioni fra l'antropologico e il morale, Rea rimase proprio quello che era apparso all'inizio: il narratore guidato da un prepotente istinto prerazionale che lo rende capace di cogliere con icastica forza personaggi, ambienti, situazioni della vita napoletana e meridionale in genere, fino a esprimerne nella pagina anche i sapori, gli odori, le inflessioni della voce, e soprattutto l'intrinseca teatralità, che dà un che di recitato, di eccessivo, di esasperato anche agli eventi più intrinsecamente patetici e tragici, perché nel suo mondo popolaresco tutto, infine, è spettacolo di fronte agli altri, al paesaggio, alle stagioni, anche la miseria e anche il dolore. E il recentissimo romanzo Ninfa plebea (1993) è lì a dimostrare la sostanziale continuità del suo stile e della realtà da lui privilegiata come argomento e luogo del narrare. L'istintività di Rea, tuttavia, non è da interpretare come ingenuità o mancanza di consapevolezza delle proprie ragioni di scrittore. C'è, dietro, la decisione di collocarsi, nel cuore del Novecento, all'indomani della guerra, sulla linea della tradizione napoletana dialettale e in lingua che risale all'età barocca (e ha al suo culmine il Basile favolista). E il linguaggio di Spaccanapoli, poi del successivo Gesù, fate luce ( 1950) è acceso, inventivo, alacre, un poco scomposto e visionario, scenicamente eccessivo a tratti, ma per quel gusto dello spettacolo del gran teatro che è il mondo e, più specificamente, le strade di Napoli, i bassi, i dintorni. Rea si impegna a rappresentare tutto ciò e a interpretarlo con uno stupore attonito di fronte alle vicende e ai personaggi che recitano i loro furori, i loro lamenti, le loro ammonizioni, i loro amori, con una partecipazione così completa e convinta da suscitare nella scrittura una meraviglia vivacissima della fantasia inesauribile di fronte all'inesauribilità delle scene. I racconti di Rea si avvalgono di una sapienza raffinata di stile, e qui è il segno della piena consapevolezza della propria operazione letteraria di inventore (non di rispecchiatore) del grande spettacolo del popolo napoletano, guidato a grida, risa, lamenti, letizie dalla mano demiurgica dello scrittore. Il suo respiro è quello della novella, secondo la grande tradizione italiana: il racconto che nasce come comunicazione orale e di cui Rea sa conservare nella scrittura tutta la vivacità e il ritmo incalzante e quasi la mimica della parola detta. Avviene, proprio in conseguenza di tale vocazione al racconto, che l'ambizioso romanzo Ritratto di maggio, del 1953, fallisca sia nella struttura che vorrebbe essere di ampio respiro, sia nell'assunto, che è quello di raccontare l'esperienza scolastica di un gruppo di ragazzi di un piccolo paese del Sud, proponendo con eccessiva evidenza una specie di Anti-Cuore, combattuto, per di più, fra il documento, questo sì neorealista (come assolutamente non realisti sono i racconti), e l'invenzione. Con Quel che vide Cummeo, del 1955, che è di nuovo una raccolta di racconti, Rea ritorna, con migliore complessità e maturità, alla misura e al tono delle sue prime opere. Ogni pericolo di bozzetto più o meno dialettale è superato nella grandiosità del grottesco, nell'intensità della partecipazione morale e patetica alle storie dei suoi personaggi popolareschi, nella capacità di cogliere l'anima che è dietro al gesto anche più semplice e spontaneo, ma non mai meccanico (come accadeva qualche volta nei primi racconti). Dopo, Rea arriva finalmente, sia pure nel suo modo sempre un poco aneddotico e discontinuo, a creare due romanzi di esemplare originalità. Una vampata di rossore (1959) è una atroce descrizione di un'agonia immersa nel dramma dell'incomprensione e dell'incomunicabilità dei sentimenti e degli affetti, condotta in un linguaggio grandiosamente barocco nelle risonanze funebri e grottesche, gonfio, esaperato, ossessionato dal disfacimento della carne e dal dramma dell'affievolirsi dei sensi e della luce della vita. Ninfa plebea è, invece, un romanzo coloritamente carnale, di un erotismo popolarescamente immaginoso, accanitamente e fantasiosamente espresse in concatenazioni metaforiche vivacissime. Il personaggio della ragazza che impavidamente attraversa le più diverse esperienze amorose sullo sfondo di una vita brulicante, fervida, che è capace di ricrearsi e reinventarsi da capo ogni volta che un gesto è stato compiuto, che una vicenda si è chiusa, che un incontro è avvenuto, diviene a un certo punto l'allegoria della visione del mondo e dell'esistenza della stessa scrittura, propria di Rea. Per giungere a questo punto, lo scrittore ha dovuto attraversare un lungo periodo, se non di silenzio, certo di affievolimento e di annebbiamento creativo, riducendosi alla funzione di illustratore e commentatore di costumi napoletani. E' stato come un intervallo di silenzio, da cui Rea è uscito ripartendo dal barocco e dal fantastico dei primi racconti, ma non dimenticando l'esperienza di quella che è, forse, la più straordinaria fra le opere teatrali del dopoguerra, Le formicole rosse (1948), un testo astratto, in cui si attua una stilizzazione assoluta dei gesti e delle parole nell'assenza di ogni partecipazione dell'autore ai suoi personaggi e nello straniamento dei personaggi stessi da quanto fanno e dicono. Giorgio Bàrberi Squarotti La miseria e il dolore trasformati in spettacolo aitati! A destra, Domenico Rea. Qui sotto: bambini nei vicoli di Napoli

Persone citate: Achille Occhetto, Anti, Antonio Bassolino, Domenico Rea, Gesù, Giorgio Bàrberi Squarotti, Giorgio Napolitano, Giovanni Spadolini

Luoghi citati: Napoli, Posillipo