La corsa di nonno Giuseppe di Guido Tiberga

La corsa di nonno Giuseppe LA STORIA La corsa di nonno Giuseppe CMILANO HISSA' che cosa starà facendo adesso Martina?». Giuseppe, per un attimo, dimentica l'America, New York e il ponte di Verazzano pieno di gente che si agita e urla e saltella. Martina ha un anno e mezzo. Tra un po', quando avrà imparato a parlare, lo chiamerà bisnonno. «Vedremo, per ora quando mi guarda sorride soltanto. E corre, corre sempre». Giuseppe è in piedi da quasi due ore. E comincia a essere stufo, lì «come un pirla» in mezzo alla strada piena di gente. «Ma che cosa cavolo aspettano, questi matti di americani? La musica, il rumore, tutti questi intorno che non stanno zitti un momento. Se almeno capissi un po' d'inglese. Qui non si riesce neanche a pensare...». Alle dieci e mezzo precise, sulla folla che aspetta la maratona scende il silenzio. Ma è un attimo: il segnale è un gran colpo di cannone, sotto ai piedi il ponte comincia a tremare, sulla testa girano gli elicotteri, e davanti agli occhi c'è soltanto un mare colorato che si muove. Anche Giuseppe si muove, cammina per qualche minuto. Poi non resiste e si mette a correre, con i passi corti e i gomiti ben aperti «per non far passare gli altri, come faceva Beccali. Lui sì, che gliel'ha fatta vedere a questi matti qua...». Giuseppe corre. E intanto pensa, perché chi corre non smette mai di pensare. Pensa a Nini Beccali, medaglia d'oro alle prime Olimpiadi di Los Angeles, a quella volta che provò a correre contro di lui, al Giro di Milano: tre chilometri e mezzo tra l'Arena e il Castello Sforzesco. Nini primo e Giuseppe quarto. Pensa a quella domenica che era sceso da Paderno Robbiate, Brianza laboriosa, per sfidare alla corsa i ragazzi della città. «Bravi loro, con quelle magliette di lana colorata e gli scarpini fatti apposta. Noi, in campagna, le scarpe le mettevamo solo per andare alla Messa. Eravamo in trecento, categoria giovanetti. Primo Frassa di Milano. Secondo Alvisi di Lecco. Quinto io. Chissà, forse potevo diventare un campione...». Sta correndo da quasi un'ora. Le gambe girano bene, sembra. Lui e tutti gli altri avanzano piano verso Brooklyn, su uno stradone a sei corsie che assomiglia all'autostrada dei Laghi. «E così questa sarebbe Nuova York», pensa Giuseppe, che in America ci è arrivato da una settimana, ma non ha mai trovato il coraggio di uscire dall'albergo. «E cosa uscivo a fare? - si arrabbia -. Io a scuola ho fatto solo la terza, quasi quasi non so nemmeno l'italiano: dove andavo, da solo, in questa gabbia di matti che parla solo l'inglese? Ieri ho incontrato un gruppo di italiani e mi hanno trascinato fuori a vedere la Statua della Libertà. Una specialità, dicevano. Balle: sembrava il San Carlone di Arona. Sono stato in piedi tutto il giorno e la sera ho sbagliato ascensore e non mi riusciva più di trovare la stanza...». In un albergone come quelli di Manhattan, Giuseppe non ci era stato mai. Un grattacielo a cinque stelle, con la tv che parla l'inglese e il bagno grande ma senza il bidè che agli americani non piace. A pensarci bene, Giuseppe non era mai stato in un albergo. Mai una volta lontano dalla sua Milano, al massimo un Guido Tiberga CONTINUA A PAG. 2 PRIMA COLONNA

Persone citate: Alvisi, Beccali, Carlone, Frassa, Nini Beccali, Paderno Robbiate