QUANDO MARIO CAMERINI OLIO' LE ROTAIE DEL CINEMA

Avne Maestri Avne Maestri MIO cugino, Augusto Genina, che era entrato all'Accademia Militare e poi non ha potuto fare quella carriera in seguito a un'operazione, scriveva soggetti per la vecchia Cines. Aveva fatto cento soggetti, i soggetti allora si scrivevano in tre pagine, quattro pagine, si rubavano dai romanzi e dalle commedie francesi; e Genina veniva a colazione a casa mia e mi raccontava che aveva venduto questi soggetti. Io con un mio amico, Gentili, che poi poveretto è morto in guerra, stavamo al Tasso; e c'era un professore che non vedeva molto, così abbiamo pensato di scrivere anche noi un film e Genina ci diceva che gli davano 50 lire, che era molto, e facemmo un soggetto, Le mani ignote, un soggetto giallo...», raccontò a Francesco Savio, che lo intervistava per la sua opera monumentale Cinecittà Anni Trenta (Bulzoni Editore, 1979) Mario Camerini. E questo ricordo di un fatto del 1913 si confonde con il mio ricordo che molti anni dopo almeno nelle scuole romane vigeva ancora la speranza di cambiare la propria vita scrivendo un soggetto cinematografico. Quando stavo a Roma, in prima e seconda ginnasiale, all'Umberto I, se non addirittura alle elementari, c'erano sempre due o tre compagni che, durante gli intervalli e anche durante le lezioni scrivevano un film, come dicevano loro. Lo scrivevano sui fogli che di solito si usavano per i compiti in classe e pochi mi chiedevano un giudizio, la maggioranza si guardava bene dal farmi leggere qualcosa, per paura che copiassi l'idea e andassi a rivendermela. Solo il mio compagno di banco Nando, di cui è andato perduto nella mia testa spana il cognome e l'aspetto, mi offrì di collaborare al suo parto. Ma io sono sempre stato scarso quanto a immaginazione, preferisco quella degli altri: ma quelle storie scarabocchiate sulle righe della carta protocollo in una grafia ancora abbastanza infantile avevano una desolante aria da compito in classe. A ogni modo, sebbene non esistesse ancora Cinecittà nei primi Anni Trenta, il cinema aveva grande peso nell'immaginario collettivo romano. «De Sica...» poteva sospirare mia madre, a un improvviso incontro in largo Magna Grecia e minacciava di svenire quando Vittorio De Sica, ligio al suo ruolo di divo, si toglieva di testa il Borsaiolo per salutare galantemente l'ammiratrice. E l'incontro riferito poi a casa suscitava a tavola una crisi di gelosia di mio padre. «Fummo chiamati alla Cines con una cartolina e ci andammo in tram, io e quest'altro amico, ma non mi ricordo se eravamo ancora con i calzoni corti, forse no, eravamo comunque molto giovani, 16 anni al più», prosegue il racconto di Mario Camerini. «Il portiere ci disse: "Ma che cosa volete? Volete fare delle comparse?". Dico: "No, abbiamo ricevuto questa cartolina". E andammo in un ufficio. Lì erano tutti baroni, conti, marchesi, e il capo era il barone Fassini, Fassini quello che poi ha dato la casa a Mussolini. E appena entrati ci ricevette un conte e disse: "Ma siete voi gli autori di Mani ignote?". Dico: "Sì, siamo gli autori di Mani ignote". "Ah", disse, "venite, il barone Fassini vi vuole conoscere", eccetera, eccetera. Entrammo in un grosso salone col mappamondo pure, un salone rosso, lì alla vecchia Cines, e questo barone Fassini si alza, e dice: "Eh, ma voi due siete ragazzi, come mai? Il soggetto l'ho già venduto perla...". Allora i film si vendevano così, a scatola chiusa, per la Francia, per la Germania. "Ah, benissimo, il film è pieno di fantasia", insiste. "Scrivetemi qualche altra cosa così...". Poi, sulla porta, disse al conte: "A questi due ragazzi 75 lire". Io tornai a casa e raccontai questa cosa a Genina che rimase malissimo...». L'arte del raccontare lieve, ma non innocente, dei film di Mario Camerini è perfettamente assaporabile anche in questo suo ricordo pressoché d'infanzia sulla sua iniziazione ai ca- mazzare il rivale, poi si buttava lui giù dal trapezio. Poi Augusto Genina se ne andò in Germania o comunque da qualche altra parte e Mario Camerini se ne andò in Africa a girare Kiff Tebbi, da un romanzo di Luciano Zuccoli. Avevano fatto una società, Luciano Doria, lui e altri e il primo film da girare era il suo. Kiff Tebbi, nonostante la macchinosità della trama e il ritmo posato della narrazione ebbe successo in Italia e all'estero. Fu persino osannato dal New York Times. Mario Camerini non lo sentiva ancora come primo film veramente suo, e considerò come suo primo film importante, anzi come diceva lui riduttivamente, «di una certa importanza» solo Rotaie, che uscì nel 1929, ovvero a cavallo tra cinema muto e cinema sonoro. E' questa la particolarità più rilevante di Rotaie agli occhi di Mario Camerini. Prima di partirsene per andare a ritrarre i cammelli, i beduini e i deserti della Tripolitania, per mangiare aveva continuato a fare il taglio dei film stranieri muti che arrivavano in Italia, per sosti- pricci del cinema, mestiere bizzarro sottoposto a qualsiasi sorpresa e contraddizione. La dolcezza non è nulla senza il confronto con l'amarezza. «E allora scrivemmo un altro soggetto che era una storia modernissima, attualissima adesso: lo scambio del cervello fra due bambini, uno scemo e uno intelligente. Il figlio del giardiniere era intelligente e il figlio del grande chirurgo era scemo e allora il chirurgo in una notte di tregenda fa l'operazione e trasporta il cervello... Perché io avevo letto delle cose, su Je sais tout, mi pare, una rivista francese di quel famoso chirurgo Carrel che aveva trapiantato un dito. Fassini ci aveva detto di fare una cosa originale e così scrivemmo questo soggetto e poco dopo ricevemmo una cartolina. Noi dicemmo: "Qui va benissimo". Tornammo lì alla Cines: un altro poco ci cacciavano via a calci nel sedere perché dissero: "Ma come! Avete fatto una cosa di questo genere, ma siete pazzi?". E così finì questa prima vicenda cinematografica...». Con il cinema Mario Cameri- sofia e pedagogia, anche se lui non avrebbe assolutamente ammesso riconoscimento del genere. Ma per far meglio, esser più cameriniano che mai aveva da compiere un'altra esperienza. Una prova di indipendenza. Rotaie era stato prodotto da una piccola impresa, la Sacia. I film li produceva in grande ormai solo Stefano Pittaluga a Torino e Mario Camerini, versatile quanto monotematico, anzi versatile perché fedele a un solo amore, andò a fare film con il dottor Pittaluga. Fece un Maciste contro lo sceicco, girando di nuovo in Africa dove gli piaceva andare, fece due o tre altri film, poi tagliò la corda perché non gli andava più o, poiché il padrone voleva che lavorasse ancora per lui, ci litigò. Ma poi si rimisero d'accordo, ebbe un'offerta per andare a Jonville-le-Font dove la Paramount aveva aperto stabilimenti per doppiare i propri film. La Paramount ci avrebbe perso un capitale in un'orgia di Babele, ma i più furbi e i più preparati degli europei ne avrebbero tratto un gran profitto, a cominciare da za della macchina cinematografica come addirittura parte del proprio corpo che domina i veri padri del cinema italiano. Tutto il film Uomini che mascalzoni, che Mario Camerini realizzò nel 1932 dopo la sua scoperta francese e due altre prove quali Figaro e la sua grande giornata e L'ultima avventura, è raccontabile attraverso le soluzioni tecniche di volta in volta adottate. E così, appunto, Mario Camerini lo racconta: «Un giorno io dissi a Solaroli che era il direttore di produzione della Cines: "Ma scusa qui si fanno tutti i film con i pezzi di strada ricostruiti alla Cines, tutti più in interni che in esterni. C'è la Fiera di Milano che è stata inaugurata da poco. Io faccio un film tutto quanto alla Fiera di Milano in esterni, in qualche ambiente che troveremo lì, poi ne ricostruiremo uno o due alla Cines, ma il film si può fare quasi tutto in esterno". E questo credo che abbia dato sapore al film. La storia era una storiella semplice di De Benedetti e mia, anche piacevole, ma ne venne un film, in tutto, di 1700, 1800 metri...». Mario Camerini non trascurava nulla. Sapeva i perché e i percome della sua creatura più come una madre che come un padre: «Gli uomini che mascalzoni diventò popolare anche per la collaborazione di Bixio, il quale Bixio non conosceva bene la musica, cercava i motivi col dito e col dito scrisse il motivo di Parlami d'amore Mariù. 10 mandai il motivo alla Cines e mi risposero che non era un motivo accettabile. A me piaceva il motivo di Bixio e, contrariamente agli ordini avuti dalla Cines, di notte io e Bixio andammo in uno di quei posti dove si facevano i rulli per gli organuli, con le punte. Ce lo fecero per la mattina alle sette, alle otto partimmo> misi questo rullo dentro l'organino e rimase quella musica nel film. Una musica che poi è diventata più celebre del film, forse, perché per molti anni, quando arrivavano gli italiani in qualche parte, invece di suonare Giovinezza molti suonavano Parlami d'amore Mariù». L'esilità della trama è fornita dal riassunto che Francesco Savio presenta nella scheda del film, a pagina 378 del suo grande album Ma l'amore no, realismo, formalismo, propaganda e telefoni bianchi nel cinema italiano di regime 1930-1943 (Casa Editrice Sonzogno, 1975): «Per far la corte a Mariuccia, figlia di un tassista milanese, Bruno perde il suo posto di chauffeur. Alla Fiera Campionaria, dove Mariuccia lavora a uno stand, i due giovani si rappacificano, e, dopo altre schermaglie ed altri malintesi, si fidanzano». Mariuccia era Lia Franca, Bruno era Vittorio De Sica che recitava con un velo di bambagia tra le guance, per apparire meno magro. A Venezia 11 film ebbe successo e fu venduto per la Francia, per tutto il mondo. «Non è un film ambizioso, un film in cui ci sia magniloquenza e spreco di mezzi. E' un film fatto di finezze, di garbo, di squisita misura», scrisse da Venezia il celebre critico del Corriere della Sera Filippo Sacchi. «E' anche un film profondamente nostro. Il luogo dell'azione è Milano. E' la prima volta che vediamo Milano sullo schermo. Ebbene chi poteva supporre che fosse tanto fotogenico?». Lia Franca sposò il commendatore Sequi che l'accompagnava alle prove e scomparve dal set. Vittorio De Sica continuò con sempre maggior successo, dando il meglio specie sotto la guida di Mario Camerini nell'interpretazione di sogni, follie e redenzioni di un italiano medio, radicalmente diverso da quello proposto come esempio dal regime. Un italiano mai in divisa, mai mobilitato se non dagli impulsi del cuore e mai bloccato se non dall'autoironia. Il cittadino medio italiano del ventennio resta ancora da scoprire in molti aspetti, resistendo alla retorica fascista e a quella antifascista. La finzione del cinema, a volte, anche inconsapevolmente, può aiutare la Storia a recuperare una più completa conoscenza del passato, quello vero. Sopra: il regista Mario Camerini sul sei di «La figlia del capitano» A destra: Camerini dirige Clara Calamai in «Due lettere anonime» Un altro successo: «Gli uomini che mascalzoni» Più che per la storia s'impose per la tecnica: era una pellicola sul ritmo del muto con parlato e sonoro tuire le didascalie in italiano. Mario Camerini girò Rotaie come film muto e, poiché gli pareva che i film muti abbondassero troppo di didascalie, in tutto il primo tempo era contemplato un solo titolo. Nel 1931 fu parcamente sonorizzato. Con musica soprattutto perché le immagini erano già così parlanti. Una coppia di disoccupati (la bella attrice tedesca Kathe von Nagy e l'attore italiano Maurizio D'Ancora, futuro miliardario Gucci) si chiudeva in un alberguccio per ammazzarsi, non avendo una lira. Ma il veleno depositato sulla finestra cadeva all'impeto di un treno, e li sconsigliava dal compiere il gesto fatale. Girovagavano allora per la città sino ad arrivare alla stazione. Vedevano un ricco perdere il portafoglio, avrebbero voluto restituirglielo. Ma il treno partiva. E i due decidevano di tentare la sorte. Andavano al Casinò di Sanremo, puntavano tutto e tutto regolarmente perdevano. Tornavano allora nella loro città, e almeno lui trovava un posto. Una favola da grande crisi, tra il 29 e il 31, una crisi che l'Italia apparentemente aveva meno sofferto perché era in crisi già da prima. Camerini c'era già tutto, filo- Mario Camerini. Mario Camerini vide che, quando il sonoro veniva montato sulla colonna buona, le copie si bruciavano. Era possibile fare in un altro modo? Lui tagliò una colonna sonora di scarto che doveva esser buttata via. E constatò che nella moviola faceva un certo brusio al taglio. Ma pensò che, mettendoci un'ombra sopra, forse avrebbe scongiurato quello scatto così marcato, e ci mise sopra un poco di inchiostro di china. Poi provò nella moviola, e andava tutto bene. «In ogni modo poi lo hanno fatto, si capisce lo hanno fatto anche in Francia. Il taglio del sonoro è stato introdotto un anno e mezzo dopo. Ma io, tornando in Italia, ho fatto degli altri film tra i quali Gli uomini che mascalzoni. E allora ho chiesto per contratto di avere due o tre colonne sonore per poterle tagliare; e il successo degli Uomini che mascalzoni più che per la storia è stato per la tecnica del film. Ossia, mentre c'erano i film con lunghe inquadrature, con pochi tagli, Gli uomini che mascalzoni era un film sul ritmo del muto con il parlato e con il sonoro», è la formula, anzi la ricetta di Mario Camerini ed è straordinaria la perizia tecnica, la conoscen- ni riprese contatto solo anni dopo. Dopo la guerra. La prima guerra mondiale. Era stato uno di quei giovani socialisti che erano andati al fronte perché quella guerra fosse l'ultima. Era stato ufficiale dei Bersaglieri, aveva visto morire più della metà della sua gente negli assalti frontali comandati dalla follia di uno stratega criminale ed era rientrato dalla prigionia in Germania con un vero odio per il generale Cadorna che riteneva responsabile di tutto e molta incertezza per l'immediato presente, altro che pensare all'avvenire. Il cinema era il mestiere più a portata di mano per motivi familiari. E anche la cosa che gli dispiacesse meno di fare, per racimolare qualche soldo. Lavorò nel 1920 come aiuto del fratello Augusto regista del film Tre meno due. Nel 1923 passò a lavorare sempre come aiuto con suo cugino Augusto Genina, ormai affermato regista per il film Cirano de Bergerac. Quello stesso anno esordì nella regia, ma sotto il nome di Genina, con il film Jolly, storia scritta dal cugino di un vecchio clown che s'innamorava di una ragazzina che s'innamorava invece del trapezista e il vecchio clown prima pensava di am-