Un Bonaparte per Machiavelli di Sergio Romano

Società' e Cultura Torna lo storico falso del 1816 Un Bonaparte per Machiavelli Napoleone BonCLI artisti che fanno la gioia dei falsari sono generalmente quelli che hanno al tempo stesso —'grande originalità e straordinaria semplicità: Modigliani, Malevic, Fontana, Mondrian. Per ingannare l'esperto e il collezionista bastano una curva, un taglio, un quadrato, una combinazione di colori. Lo stesso può dirsi dei grandi leader politici. Sono facilmente imitabili quelli che hanno inventato la propria maschera e disegnato il proprio logos: il sigaro e la V di Churchill, le mani sul fianco di Mussolini, il pugno di Hitler, la voce profonda e solenne di De Gaulle, la giubba militare di Stalin, la barba di Castro. Quasi tutti ebbero un sosia o una controfigura che ne imitava perfettamente le movenze, i tic, le locuzioni abituali. Il più imitabile e imitato fu probabilmente Napoleone Bonaparte. Aveva un accento meridionale, bestemmiava come un italiano, scriveva e parlava con frasi brevi, staccate, lapidarie, sarcastiche, provocatorie. Fu una inesauribile fonte d'ispirazione per plagiari, imitatori, caricaturisti. Dopo la fine del suo impero l'Europa fu inondata da un diluvio di «inediti» napoleonici. Molti erano falsi mediocri, usciti dalla bottega di uno scribacchino affamato. Altri erano falsi geniali, usciti dai grandi salotti letterari dell'epoca. Geniale, ad esempio, è il «Manoscritto pervenuto misteriosametne da Sant'Elena» che fu scritto, probabilmente, dagli amici di Madame de Staèl; sembra che persino André Malraux, autore di una «autobiografia» dell'Imperatore, ci sia cascato e l'abbia preso per buono. Altrettanto geniale è un «Machiavelli commentato da Napoleone Buonaparte» che apparve nel 1816 presso un libraio di Parigi, a cura dcll'abbé Aimé Guillot de Montléon. Guillon sostenne che nella carrozza imperiale, dopo la battaglia di Waterloo, i soldati prussiani trovarono, insieme a vasellami e tabacchiere, un'edizione del Principe tradotta da Napoleone e da lui commentata in momenti diversi della sua vita. Le 776 note dell'Imperatore secche, sprezzanti, ciniche e direttamente collegate alle diverse fasi della sua carriera politico-militare - appaiono ora, con il Principe di Machiavelli, presso un piccolo editore lombardo (La Spiga Meravigli). Ma sulla falsità di questo testo «napoleonico» non tutti sono d'accordo. L'ultimo editore francese, Jean de Bonot, sostiene che le note sono probabilmente autentiche; Ermanno Paccagnici, autore di una nota molto documentata e convincente, che sono probabilmente false; e Massimo Camola, curatore dell'ultima edizione, sospende il suo giudizio, ma ammette di credere che esse escano «dalla penna del più grande stratega italiano, che seppe conquistare la Francia fingendosi francese». A mio avviso sono troppo «napoleoniche» per essere vere. Ma sono scritte da un «falsario» che usava abilmente la penna, seppe mettersi nei panni di Napoleone, riuscì a cogliere ogni possibile analogia fra gli avvenimenti storici evocati da Machiavelli e quelli di cui l'Imperatore era stato protagonista. Il falso è plausibile. Non sappiamo se Napoleone abbia effettivamente scritto le note che gli furono attribuite, ma lesse il Principe, ne meditò la lezione e dovette continuamente guardar¬ parte si allo specchio nella prosa di Machiavelli. Attribuendogli un commento l'abbé Guillot lavorò di fantasia, ma inventò la «verità». Non c'è leader che in certi momenti della sua vita non abbia tenuto il Principe sul comodino per leggerlo prima di sprofondare nel sonno e sognare la conquista del potere. Il più famoso fu il «grande Federico», fondatore della potenza prussiana, amico di Voltaire e degli Enciclopedisti, autore di una sterminata produzione letterario-filosofica e, in particolare, di un moraleggiante «Antimachiavelli» che apparve nel 1740. Ma in uno scritto pubblicato nell'edizione del Principe curata da Ugo Dotti (Feltrinelli, 1993) il grande Hegel lo accusa di «moralistici luoghi comuni». Allorché volle prendersi la Slesia, Federico fece esattamente ciò che Machiavelli, in quelle circostanze, gli avrebbe suggerito: violò gli accordi con la corte di Vienna e si giustificò negando la validità dei trattati «quando non corrispondono più all'interesse di uno Stato». Mussolini fu meno ipocrita. In un preludio al Principe, apparso nel 1940, si chiese che cosa fosse ancora vivo nel Principe e rispose alla propria domanda dichiarando che Machiavelli era, con ragione, «uno spregiatore degli uomini». «Di tempo ne è passato, continuò, ma (...) io non potrei in alcun modo attenuare il giudizio di Machiavelli». Agli uomini irrimediabilmente cattivi, egoisti, codardi e bugiardi, Mussolini contrapponeva il Principe, vale a dire la forza organizzata dello Stato, unica creazione umana capace di rendere gli individui coraggiosi, nobili, generosi. Per Gramsci, invece, il «nuovo Principe» è il partito. Quando un settimanale, Epoca, gli chiese una prefazione, Bettino Craxi - era il 1988 evocò l'analisi di Gramsci e gli rimproverò di non avere previsto le nefandezze a cui il partito sarebbe giunto nel corso della sua storia. «Dov'è l'errore? (...) è la teoria della doppia morale, una per il Principe e un'altra per i sudditi; una per lo Stato e un'altra per i cittadini; una per il Partito e un'altra per il popolo». Sostituite «partito» con «partitocrazia» e le parole di Craxi diventano ironicamente profetiche. L'ultimo prefatore di Machiavelli è un capitano d'industria sedotto dalla politica. La nota di Paccagnini è in «Principe annotato da Napoleone», apparso nel 1993, con prefazione di Vittore Branca, presso «Silvio Berlusconi Editore». Quando presentò il libro ai lettori Berlusconi non aveva ancora deciso di entrare in politica. Prese la distanza dagli aspetti «poco umani» dell'opera, ma elencò i consigli di Machiavelli che gli apparivano attuali: mirare alto, come «gli arcieri prudenti», essere al tempo stesso come «la volpe e il leone», «dare di sé in ogni azione fama di uomo grande e eccellente». Ricordò poi che Machiavelli aveva invocato per l'Italia un «redentore» e sostenne che il suo messaggio di fiducia era «sempre condivisibile, in particolare in questi tempi, perché in Italia "è virtù grande nelle membra, quando non la mancasse ne' capi"». Insomma, «Forza Italia!». Abbiamo fatto le elezioni nel 1948 nel segno di Garibaldi. Faremo quelle del 1994 nel segno di Machiavelli? Sergio Romano Napoleone Bonaparte

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