«lo Giorgio il redivivo»

I «lo, Giorgio, il redivivo» // leader: ho sbagliato ma non sono un ladro POLITICA E DENARO SE per i cattolici è sterco del diavolo, per il laico Giorgio La Malfa cos'è mai il denaro, che muove la suprema forma sociale del capitalismo, ma che l'ha anche portato - proprio lui che del rigore morale aveva fatto una politica - alla gogna di Tangentopoli? Fino ad oggi era impossibile, criminale, chiederlo allo sparuto La Malfa rauco, ingrigito e come curvo sotto il peso del pacchetto di milioni ricevuti da quella caricatura di capitalista che è Carlo Sama. Ma adesso che il partito lo richiama, con un'assoluzione che la giustizia non gli ha ancora concesso, adesso al La Malfa redivivo e rinfrancato si può pure porre il banale, ma essenziale, quesito marzulliano: «Cos'è per lei il denaro?». «Per me - risponde quasi niente. Per la società capitalista una patologia, quando non una forma semicriminale. Non sono io a dirlo, ma John Maynard Keynes, l'uomo che ha salvato il capitalismo. Quando tutti saranno prosperi - diceva - la ricerca del denaro non sarà considerata che una patologia, uno dei desideri più sgradevoli dell'animo umano». E perché anche lei ha ceduto a questo vizio keynesiano? «Io rivendico la mia moralità personale, che perfino il khomeinista Leoluca Orlando per fortuna non mette in discussione. In questo Paese si sono realizzati enormi arricchimenti personali, sui quali occorre condurre un'inchiesta, come aveva proposto a suo tempo Martinazzoli. Ma si è ceduto alla patologia del denaro anche per fini diversi e meno ignobili». Lei perché ha ceduto? Perché dovevo difendere una tradizione politica, quella repubblicana, quella del partito d'azione. Per questo ero disarmato rispetto ad azioni illegali». Le sembra un buon motivo? «No, ho sbagliato e ho sbagliato soltanto io. Non scarico, come altri, sui segretari amministrativi. La legge sul finanziamento ai pie- coli partiti avrebbe dovuto essere liberalizzata, era inutilmente severa. Ma questo non cancella il mio errore, non mi assolvo». Sembra di sentire suo padre vent'anni fa, quando ammise di aver preso soldi dall'Enel. «E proprio come mio padre rivendico la mia responsabilità: nessuno mi sentirà mai dire che è colpa di un segretario amministrativo». Come si è sentito di fronte a Di Pietro? «Male, ma non come un ladro. Lo stesso Di Pietro ha osservato che è stato l'unico nostro scivolone. Il partito repubblicano non ha incassato le enormi cifre di cui si ha oggi conoscenza per altri». Mi scusi, onorevole La Malfa, un ladro è un ladro, a prescindere da quel che ruba. «E invece no, c'è chi è ladro e chi invece è costretto, disarmato, a salvare la propria idea. Chi è costretto a far fronte a oneri, come io ho considerato quello di prendere denaro dalla Montedison». Ma lei aveva lasciato il governo ponendo anche una questione morale: quei 300 milioni di Sama e l'ammissione di colpa non l'hanno indotta a dire: «Lascio per sempre»? «Certo che ho pensato a lasciare tutto. Io amo l'economia, i libri, non temo la noia. Ma poi mi son detto: per te la politica è sempre stata un dovere, non un piacere». E mai un momento di disperazione al processo Cusani? «Disperazione no, io sono un uomo molto controllato. So quali erano i bisogni dei partiti e del mio, in particolare. In questo siamo tutti più o meno responsabili. Ma quando ho visto che in quattro o cinque consigli nazionali del partito non veniva fuori una nuova maggioranza e che anche Visentini auspicava soluzioni...». Come giudica Di Pietro? «Penso che sia un magistrato penetrante, ma equanime e soprattutto non vendicativo». Lei è un paladino del capitalismo italiano: come può sopravvivere con esponenti come Gardini e Sama? «Le risponderò ancora con Keynes che il capitalismo è pieno di difetti, è un sistema per certi versi sgradevole e intollerabile e quando, tra cento anni, sarà finito il bi¬ sogno, potremo liberarcene». Lei ci straluna, onorevole La Malfa: la dobbiamo mandare al congresso di Rifondazione comunista con Cossutta? «Ma no, le ripeto che il capitalismo ha delle patologie freudiane, come il denaro. Anzi, citerei la Favola delle api: piccole virtù e vizi privati, l'usura, l'avarizia...». Eppure non sembra molto ben disposto verso lo schieramento progressista. «Intanto c'è un veto di Orlando, i progressisti non ci vogliono. Ma questo oggi è poco importante. Ormai sulla politica economica non ci sono quasi più contrasti ideologici. Nessuno ha più il coraggio di dire che il deficit fa bene». E allora? «Allora non si discute più sui grandi princìpi ma se ci debbano essere più o meno tasse». Più o meno? «Machiavelli dice che i mali all'inizio sono difficili da diagnosticare e facili da curare; poi diventano facili da diagnosticare e difficili da curare. Questa è la nostra situazione: se si abbassano le imposte cresce il reddito, forse l'occupa¬ zione, ma subito s'infiamma l'inflazione e va in passivo la bilancia dei pagamenti. Questo è il nodo». Come si scioglie? «Vince le elezioni chi propone una politica di sostegno delle imprese: aiutare le piccole industrie a nascere, le medie a diventare grandi, le grandi a essere trainanti. Da questo punto di vista, siamo come il Sahara: in Italia ogni anno si registrano meno brevetti che in Brasile. Ci vuole la small business administration, come in Usa». Con chi la vuol fare lei questa politica? «Porta aperta a tutti: Martinazzoli, Segni, Occhetto, chiunque voglia un patto tra produttori». E Berlusconi? «Lui è poco credibile perché guarda soprattutto ai suoi interessi, facendo credere che si debba scegliere tra Patto Atlantico e Patto di Varsavia. Ma il Patto di Varsavia non c'è più». Keynes che direbbe? «Che gli italiani guardano a una valida proposta economica: chi è più credibile prenderà più voti». Alberto Staterà «Siamo aperti a tutti: Martinazzoli, Segni Occhetto, se vogliono il patto tra produttori» I Giorgio La Malfa tornato alla guida del pri (foto grande) Qui accanto Bruno Visentini

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