Gaetano De Sanctis guerra alla guerra

Gaetano De Sanctis guerra alla guerra FOGLI DB BLOC-NOTES Gaetano De Sanctis guerra alla guerra DODICI febbraio 1917. Una nota di diario, datata Torino. Autore: Gaetano De Sanctis, il grande studioso . 1 di Atene e di Roma, professore ordinario di storia antica nell'ateneo torinese fin dall'alba del secolo. Cattolico intransigente, e altrettanto intransigente avversario della guerra, schierato contro la mistica interventista che aveva spezzato il mondo dei valori europei, contrapponendo il bene al male nella spietata contesa civile destinata a oscurare le prospettive della comune civiltà. Il ricordo del «maggio radioso» di un anno e mezzo prima - l'intervento dell'Italia in guerra forzato dalla piazza e contrastato dal Parlamento - evoca nel grande storico l'immagine di «Plusiopoli», la città dei ricchi (la plusia era la farfalla dalle macchie di oro e di argento). E l'Italia è raffigurata come una grande Plusiopoli, dove quattrocento studenti si contrappongono ai più di quattrocentomila abitanti, disorientati, smarriti e accigliati: spettatori freddi e distaccati. «... I vantaggi vennero per Plusiopoli... una pioggia d'oro attutì le ire degli industriali e degli operai... la guerra apparve agli occhi di tutti necessaria pel bene della patria. Poi le sofferenze cominciarono; vennero mancando merci e derrate... ed ora secondo se cresceranno o diminuiranno i profitti e il benessere, crescerà o diminuirà in Plusiopoli l'ardore per la guerra e la convinzione della sua giustizia e necessità». Una raffigurazione cruda, che non manca di accenti o di vibrazioni di materialismo storico, nascendo da una denuncia, coerente e implacabile, della «guerra pazza e scellerata». E fa parte, con infiniti altri spunti, del Diario segreto di Gaetano De Sanctis che la fedeltà devota di Silvio Accame ha conservato fino a noi (a quasi quarant'anni dalla morte del maestro, senatore a vita fra i primi della Repubblica, su scelta di Luigi Einaudi) e che la Nuova Antologia si onorerà di pubblicare in quattro puntate, a partire dal prossimo fascicolo di metà marzo. Quattro puntate diseguali; perché due terzi del diario sono del 1917 e solo un terzo abbraccia gli anni successivi, fino al '38. Gaetano De Sanctis, romano e di antica famiglia pontificia, aveva 45 anni quando la prima guerra mondiale investì l'Italia ed era già all'apogeo della sua straordinaria carriera scientifica, cominciata da giovane professore a Torino e prolungata nel capoluogo piemontese fino al 1929. Maestro di storia e di umanità; tutt'altro che insensibile al travaglio dell'idealismo moderno, con Croce ma anche con Bergson, cattolico fedele alla tradizione ma portato a sentire i valori di humanitas e di tolleranza sopra ogni altro; critico di tutti i dogmatismi, di tutti i manicheismi, di tutte le lacerazioni. Agli uomini come De Sanctis (ma il discorso non è diverso per Croce, altrettanto ostile al «maggio radioso» e altrettanto perplesso sull'intervento bellico) la prima guerra mondiale rappresentò la fine di una certa idea dell'Europa. C'è una nota di diario del 7 novembre 1917, sempre da Torino, in cui il sentimento della «patria», così profondo e quasi pudico per quella generazione, viene contrapposto al nazionalismo sopraffattore: «Le improntitudini del nazionalismo e del militarismo, la stolida politica di condotta di guerra, il disumano trattamento del cittadino e del soldato ci hanno portato a Caporetto». L'unione sacra ci ha salvato a Caporetto (quella disfatta di cui esiste una commovente premonizione nel diario, il 18 agosto 1917); ma «salvando la patria - è la conclusione accorata e malinconica, rivelatrice dell'intera visione della vita dell'uomo - noi salvammo disgraziatamente anche il nazionalismo, che si era aggrappato alla sua navicella pericolante e gli permettemmo così di riprendere a breve scadenza il suo triste gioco contro la patria, la libertà e la umanità». Né gli anni correggono quel giudizio o attenuano quella asprezza. In una nota datata da Roma, il 26 gennaio 1932 (da poco ha lasciato l'ateneo torinese per quello romano), a distanza di ormai tanti anni da quelle vicende e nel clima dell'esasperazione fascistica cui si è sempre risolutamente opposto, annota, in via quasi conclusiva: «Ho sempre ritenuto pazza e esiziale la politica di Salandra e stolta e sciagurata la condotta di guerra di Cadorna». Sono passati 14 anni e la vita di De Sanctis si è mossa secondo la fedeltà sdegnosa e sprezzante al suo modello di vita, ai suoi maestri, alle sue regole di storia e di morale: nulla concedendo agli «idola fori» di una retorica patriottica, di cui aveva intuito tutti i rischi di conseguenze devastatrici. Restando, sempre e soprattutto, uomo di scienza, portando avanti il suo periplo sterminato di «storia dei romani», tornando dopo Roma al primo e mai dimenticato amore ellenico, la repubblica ateniese, ripercorrendo l'intera parabola della civiltà occidentale, precristiana e cristiana. De Sanctis assolve contemporaneamente i suoi doveri di cattolico, non gioisce mai dell'esattezza delle sue previsioni. Plaude alla vittoria del Piave, con una nota commovente, in un neutralista come lui, datata il 3 giugno 1918 da Torino. Si iscrive fin dall'inizio nel partito popolare di Luigi Sturzo; assume le sue cariche pubbliche a Torino come consigliere comunale; firma nel 1925 il manifesto Croce degli intellettuali contro quello di Gentile, si schiera dalla parte della libertà contro la dittatura, senza esitazioni e senza incertezze. Il commento alla marcia su Roma è contenuto tutto in questa nota di diario dell'11 novembre 1922, sempre da Torino. «Le bande armate in nome della reazione esaltano il pugnale che uccide i liberi, così come ieri le bande armate nel nome tuo esaltavano, o libertà, il pugnale che uccide i tiranni». Il 25 gennaio 1932 (la nota è datata da Torino) De Sanctis prevede che l'Italia nel 1952 sarà ('irriconoscibile» rispetto a questa. Come l'attuale è «irriconoscibile» rispetto all'Italia di vent'anni fa. E «quelli che si compiacciono del presente stato di cose» potrebbero optare, allora, fra il manicomio e la prigione... Alla fine del 1931 Gaetano De Sanctis, che si avvia alla cecità completa, e conosce anche difficoltà e ristrettezze economiche (il suo ingresso all'Accademia d'Italia è stato bloccato personalmente da Mussolini), rifiuta il giuramento di fedeltà al regime fascista. Perde la cattedra, quella cattedra romana del suo maestro Beloch cui era arrivato tardi e dopo il fecondo trentennio di vita torinese, essenziale nella sua parabola intellettuale. Croce lo consiglia di restare al suo posto. Ha il terrore dell'ignoranza che avanza e suggerisce ai suoi più devoti amici, Adolfo Omodeo e Guido De Ruggiero, di conservare la cattedra pagando il prezzo del giuramento estorto. Gentile si meraviglia delle sue obiezioni e lo invita sottilmente a distinguere fra il suo ruolo di studioso, che non gli impone compiti politici, e il suo rango di insegnante, che lo assoggetta a certi doveri anche sgraditi (un linguaggio da ragion di Stato, estraneo all'animo dell'apostolo-professore il quale tuttavia troverà in Gentile la protezione necessaria ad assicurargli il posto nell'Enciclopedia italiana, della quale De Sanctis sarà salvatore e continuatore dopo la liberazione). Il pessimismo di De Sanctis ci ricorda per molti aspetti quello di un altro grande studioso di formazione cattolica e di forti influenze torinesi, quale fu Arturo Carlo Jemolo. Negli anni del maggior consenso intorno al fascismo (è il 16 aprile 1932) De Sanctis sottolinea di non potere prevedere nulla e aggiunge: «Si brancola nel buio e che importa? Non vacillerà il cuore dell'esploratore intrepido se, muovendo verso terre ignote, non conosce né la via né il suo termine». «Sulla patria tenebra fonda»: aggiunge il 20 maggio 1932. Anche cieco la sente o almeno la intuisce: quella tenebra. «Nell'ombra, nell'agguato, il tedio che nella mia vita operosa non avevo mai conosciuto. E nulla intorno che conforti lo spirito». «E' terribile cosa non poter conversare con gli altri»: scrive De Sanctis, ormai cieco, il 17 luglio 1938. «Ma più terribile cosa è il non poter conversare con se stesso. La mia solitudine si è fatta nera ed atroce». Giovanni Spadolini