Messico dove i piccoli indios giocano con le bambole morte

Nell'Esercito zapatista una folla di adolescenti tormentati da dissenteria, colera e fame Nell'Esercito zapatista una folla di adolescenti tormentati da dissenteria, colera e fame Messico, dove i piccoli indios giocano con le bambole morte LA RIVOLTA CONTINUA CITTA' DEL MESSICO DAL NÒSTRO INVIATO «Devo vedere il dottor Adolfo Lopez». «Di che cosa soffre?» «Di niente, è soltanto un colloquio. Mi aspetta». «Riempia il modulo. Ci metta che ha mal di testa, mal di schiena, il male che vuole. E' più sbrigativo per arrivare al dottore». Città del Messico, ospedale Angeles del Pedregal, Camino a Santa Teresa 1055, quartiere Heroes de Padierna, modernissimo, elegante, bar, ristoranti, sale d'attesa inondate di luce, poltrone di pelle, indios che ci sprofondano increduli. Il modulo passa a un giovane di gentilezza abbondante, barocca: «Mi segua, si accomodi, vedrà che il medico le fa passare subito il dolore. Siamo arrivati, entri la prego, segga. Desidera un aperitivo?». Ambulatorio bomboniera, sul lettino biancheria candida, apparecchiature sofisticate. Arriva il dottore, un amabile, giovane messicano, tre anni di esperienza nel Chiapas, un libro sui bambini che appassiscono nella foresta lacandona. Parliamo. «Lei sa che Città del Messico ha circa 20 milioni di abitanti. Su 100 di essi, 20 soffrono di congiuntivite, 15 di bronchite acuta, 10 di bronchite cronica. Inquinamento da smog. A Città del Messico tutti piangono e tossiscono. Ci rimanga un po', piangerà anche lei. Ci sono altri ospedali come questo. Indios, meticci, ispanoamericani, non fa differenza, vengono curati con lo stesso amore. Ma esca dalla capitale e ne vedrà delle belle. Il Chiapas? Dissenteria, colera, fame. Si muore e non si muore bene. Negli ospedali mancano gli aghi per le iniezioni, i bisturi, manca il filo di sutura, manca la garza, mancano i disinfettanti. Apri un rubinetto e esce caffè. Magari fosse caffè. E' una strana reazione ai prodotti chimici per rendere l'acqua potabile. Un bicchiere e, qualche volta, viene la febbre. C'è una smisurata tristezza nel Chiapas: non essendo mai stati felici, i campesinos, della felicità non hanno neppure il ricordo. I bambini nel Chiapas giocano, come i bambini di Città del Messico, con i morti. Piccoli morti di legno dipinti di nero e di bianco, piccole bare, piccoli cimiteri. Una tradizione. Ma veder giocare con i morti un bambino del Chiapas è diverso, mette nel gioco una dedizione angosciosa. Nel Chiapas il 45 per cento della popolazione è formata rìn giovani al di sotto dei 15 anni. Tra gli zapatisti ci sono molti bambini diventati rapidamente adulti, capaci di assumere grandi responsabilità». All'uscita: «E' guarito, si sente meglio? Le chiamiamo un taxi». Da un ospedale così, quant'è lontano il Chiapas? I taxi sono maggiolini. Sali, ti accorgi che il tassametro è spento, dici: «E il tassametro?». L'indio blocca la macchina, apre la portiera, aspetta che tu scenda, preferisce clienti che non rompano le scatole. Cesar Nicolas Romero, meticcio, membro del Pvem, Partido verde ecologista de Mexico. Pranziamo in un ristorante nei pressi di Plaza Colegio de Ninas, cucina messicana al tritolo, vecchi camerieri con brillantina e piedi piatti, delirio di stucchi con ragnatele. «Il nostro programma Hoy no circula, oggi si sta fermi, si va a piedi, è totalmente fallito. Bisogna trovare altre strade. E' aumentato il numero dei veicoli, i concessionari vendono a prezzi stracciati. A Città del Messico circolano quattro milioni di automobili, il doppio da quando fu varato il programma Hoy no circula. Bel successo, non glien'è importato nulla a nessuno. Si consumano 43 milioni di litri di benzina e tre milioni di litri di gasolio. Trentasette veicoli su 100 hanno urgente bisogno d'una revisione. Non vedo soluzioni. E lei? Dovrebbero crepare per l'inquinamento atmosferico, Dio non voglia, 500 persone al giorno. Dovrebbero parlarne in tutto il mondo. I messicani hanno il terrore delle figuracce all'estero, non le sopportano. Se le notizie del dramma chiapaneco non avessero invaso il mondo che cosa sarebbe cambiato? Niente. E invece ci sono stati 38 cambi nel governo, 38 mica uno, ci sono stati il cessate il fuoco e l'amnistia. E perché? Perché la favola della pace sociale era una favola e tutti lo sapevano, ma restava dentro i confini del Messico». Usciamo. «Partito verde ecologista del Messico, roba da pazzi». Cesar Nicolas si copre il viso, scuote là testa: addio. Che cosa pensa della guerra nel Chiapas? «Non so». Che cosa pensa del presidente Salinas de Gortari? «Non so». Le piace vivere come vive? «A chi interessa se mi piace o no». Il macho messicano non è come credono gli europei. Il macho messicano può essere alto un metro e 50, può manife¬ starsi più secco d'un'acciuga, può somigliare a Totò, che importa. Il macho di Città del Messico ha l'acciaio nelle vertebre. In dignitosissimo abito nero, percorre con morbido passo l'Avenida Lazaro Cardenas, sosta anche per ore all'angolo di calle Rodriguez e attende. Che cosa? Il momento di sparare. Un amico lo avverte: lei ti tradisce. Lui, calmo, imperturbabile, va e spara. Di solito le vittime sono due. Il macho è gentile, risponde a chiunque togliendosi il cappello, è un interlocutore pubblico, se lo inviti a bere contraccambia estraendo dalla tasca interna, della giacca una tortilla piegata in quattro come fogli di un taccuino, e te ne offre un pezzo. Durante le pause sedative, se non ha da sparare, va al cinema. Perché questo accenno al macho? Perché il macho è una sintesi del vecchio messicano: vede crescere senza un fremito i grattacieli della capitale e senza un fremito vede i bambini indios affamati, laceri, disperati implorare l'elemosina sotto quei grattacieli, mentre la madre dorme, distesa davanti all'ingresso d'un negozio da nababbi. Allegrie subitanee e subitanee tetraggini lo colgono. Fantastica di ribellioni, ma lo atterra la fatica di ribellarsi. Non si informa. Pochissimi sono nella capitale i cittadini che s'informano per il semplice motivo che non saprebbero da che parte informarsi. «Confusione, sconcerto, ignoranza». Isidro Chavez, studente di economia che il venerdì e il sabato lava i vetri dell'Hotel Nikko Chapultepec, si tuffa dove c'è uno straniero, spiega, argomenta, s'infervora. «A pochi giorni dall'entrata in vigore del famoso Trattato di libero scambio nessuno lo conosce, nessuno ne sa niente. Il ministero non ha pub¬ blicato né promosso tra i potenziali esportatori o importatori la lista dei prodotti che rientrano nel negoziato. Nessuno sa che si può comprare con minori imposte negli Stati Uniti e in Canada e vendere in quei mercati perché nessuno gliel'ha detto. La grande sveglia, il festival dell'informazione li dobbiamo alla guerra nel Chiapas, li dobbiamo agli stranieri davanti ai quali ci siamo vergognati. I messicani, davanti a loro stessi, non si vergognano mai. Ecco perché esiste un Chiapas». Spropositate ricchezze, Ferrari, Bentley, Rolls Royce, ville bianche e rosa accucciate tra gli ibiscus, bambini-confetto nel quadrilatero dei Campos Eliseos; impressionanti miserie, tuguri da accorciare il respiro, a 50 metri di distanza, appena attraversata la strada. Campano tre milioni di indios a Città del Messico e, di questi tempi, i loro occhi pieni di ombra non sono meno preoccupanti delle facce dei granaderos. Ma Città del Messico non è il Chiapas, davanti al lusso che trabocca dai quartieri di Polanco e Masurik, un lustrascarpe indio e un granadero possono riconoscersi fratelli, si portano dentro lo stesso sapore di povertà, un misto di fiele e sudore. «Ha mai visto, signore, un granadero che picchia un indio, un campesino o uno studente? Brutto spettacolo. Se l'avesse visto, qui, in una qualsiasi strada di Città del Messico, del Distretto Federale, ora avrebbe un'idea, capirebbe che cosa può essere successo nel Chiapas». Sono le 16 di un giorno qualsiasi. La gola e gli occhi cominciano a bruciare. Quattro milioni di auto. L'orizzonte è un ondeggiante, sudicio lenzuolo di antracite. Gianni Ranieri Il cadavere di un ribelle in un vicolo di Ocosingo IFOTOAFPJ