Al Condominio Sopravvivenza

Torino, quattordici appartamenti raccontano le storie dell'Italia povera Torino, quattordici appartamenti raccontano le storie dell'Italia povera Al Condominio Sopravvivenza «Noi, famiglie da un milione al mese» VIAGGIO NELLA CRISI UTORINO NA palafitta di cemento conficcata nel mare piatto della periferia. Via Verga 18. Mirafiori Sud. Torino. Un condominio. Quattordici appartamenti, due per piano. Quattordici famiglie, ottanta vite. Una briciola d'Italia. Minuscola. Potresti spazzarla dalla tavola e nessuno se ne accorgerebbe. Solo loro. Loro che vivono in questa caserma senza guerra con un fanale piantato sopra il portone a illuminare il marciapiede. Vivono e camminano su queste due rampe di scale circondate da un muro di plastica arancione. Prendono l'ascensore, fino al primo o al settimo piano. Entrano ed escono. Pagano il canone all'Istituto autonomo case popolari o hanno riscattato l'appartamento e questo basta a dividerli in due mondi che si guardano con diffidenza reciproca. Hanno due, tre, sei figli. Li osservano dal balcone quando escono perché la zona è pericolosa. Li guardano allontanarsi e sperano che a loro vada meglio. Che ce la facciano, in qualche modo. C'è un mondo che credi esista solo nelle mille ricerche di CnellstatEuriskEurispes e invece ha una casa, abita anche in via Verga 18. Ultima rilevazione, del Cnel: sono veramente povere otto famiglie su cento, hanno un consumo annuo inferiore ai tredici milioni per tre persone. Il signor Domenico Merola apre la porta del primo piano. Sullo zerbino liso si legge ancora la scritta «Welcome». Merola è appena tornato dal suo turno di lavoro che comincia alle quattro e venti e termina alle quindici. Sta al tornio in un'azienda meccanica di Chieri. «Ho ripreso da una settimana sopo tre anni di cassa integrazione», dice facendo strada verso il salottino con due divani affiancati. La figlia più giovane si alza. Esce. Sullo sfondo resta acceso il videoregistratore. Lo schermo trasmette un film con Harrison Ford. Incastrato in un mobile sovrastato da una sfilata di tredici coppe. «Le ho vinte facendo pugilato - spiega Merola -. Ero un welter». Con orgoglio piega da una parte e dall'altra il naso spezzato dei pugni presi dui ring. «Ne ho prese di botte nella vita. E continuo a prenderne. Una settimana fa mi richiamano al lavoro dopo tre anni di cassintegrazione. Non faccio in tempo a festeggiare che mia moglie finisce in ospedale. Lunedì la operano. E' un intervento là sotto». Un colpo del destino, alle spalle. «Senza mia moglie è un casino, mandare avanti la famiglia. Abbiamo sei figli. Due sposati. Quattro vivono ancora qui. Due sono disoccupati da sempre. Gli altri qualcosa hanno fatto, con contratti di formazione e lavoro. Ma il solo stipendio sicuro è il mio. Un milione e mezzo al mese. Quando ero in cassa un milione e centodieci. E basta. Pago il canone della casa...». Si alza, apre uno sportello, prende due bollettini di versamento. «Ecco qua, centoquarantaduemila e quattrocento. Poi c'è quest'altra: centonovantaduemila. E' per i servizi. Pago tutti i mesi. Alla fine del mese, l'ultimo giorno, ma pago. Piuttosto rinuncio a mangiare, ma pago. Riscattare la casa non ho potuto, volevano sessantanove milioni in contanti o centosette a rate. Non ce la facevo. Metà del condominio ce l'ha fatta, ma quelli sono i signori, quelli che stanno in alto. Noi no. Noi rinunciamo. E se non torna presto mia moglie è dura. Lei sa fare la spesa. Gira tutto il mercatino, sa dove fanno i prezzi bassi. Sa dove trovare i vestiti bellini per le mie figlie. Io vestiti ne cambio pochi, ho queste scarpe da... e chi lo ricorda. Lei sa cosa cucinare. Fa lo spezzatino invece della fettina. Magari lo ricuoce. E' brava. Trentatré anni di matrimonio. Ci salva lei. Ci dice a cosa rinunciare. Una volta, la domenica, andavo a comprare le paste al bar qui dietro. Basta. E non mi lamento. Finché lavoro. Lavorassero anche i miei figli. Due si vogliono sposare». Uno esce dalla camera. Coda di cavallo, maglia nera che non arriva alla cintura. Abbraccia una ragazza minuta, pullover con stelline ricarnate. La promessa sposa. «E si sposeranno quando avranno almeno un lavoro in due - dice Merola padre -. E' un problema di tanti, qui. Anche di fronte, dai Piceghello, glielo chieda». Sì, ma prima mi tolga una curiosità, come ha comprato il videoregistratore? «A rate, quattro anni fa. Più di un milione. Ma ho già finito di pagarlo. Ce l'hanno anche i Piceghello». Infatti. Altro salottino, altro videoregistratore, sotto una sfilata di videocassette. Sono le quattro del pomeriggio e Luigi Piceghello si è appena svegliato. Fiat. Turno di notte. «Quattrocentomila lire in più. Il mese scorso non l'ho fatto e ne abbiamo risentito». La moglie Francesca annuisce. Lei è casalinga. Sono arrivati in via Verga 18 subito dopo il matrimonio. Lì sono nate le loro due figlie. Catia ha diciotto anni. Ha fatto un corso per diventare parrucchiera ma ancora aspetta di riuscirci. La foto appesa al muro mostra una ragazza carina e sorridente aggrappata a un giovane riccioluto con la zazzera spartita in due. «Il fidanzato - spiega la madre -. Stanno insieme da due anni. Lui questa settimana farà il concorso da spazzino. Ci ha avvertito uno del condominio, che c'era il concorso. Se ce la fa, magari si sposano». Si alza. Va in un'altra stanza. Quando torna non ha più i pantaloni della tuta, ma una gonna. Il marito ha gli occhi cerchiati. Una stanchezza che potresti toccare. «E' la notte - dice -. Ma ho quarantanove anni, lavoro da quando ne avevo quindici. La pensione non è lontana. Anche se guadagnerò meno. Rinunceremo a qualcos'altro. Quest'anno non abbiamo fatto un giorno di vacanza. Fino all'anno prima c'eravamo riusciti. Andavamo in Liguria. L'auto? E' scassata, ma facciamo finta che vada. Il videoregistratore. L'abbiamo preso quattro anni fa, in contan¬ ti. La casa? Paghiamo il canone. Non potevamo riscattarla». «Sette famiglie del condominio l'hanno fatto - interviene la moglie. Quelli che stanno in alto. Si danno un sacco di arie». Guarda su, come se guardasse un altro mondo, o solo un'altra Italia. Andiamo su, Verso l'altra Italia di via Verga 18. Ma al quinto piano apre la porta Francesca Trichilo vedova Pisani, che ha 69 anni, uno scialle nero sul capo e una sportina bianca in mano. «Medicine - spiega -, me le ha appena portate mia nuora. Sono malata. Ho l'osteoporosi. E la pleurite. Quella l'ho presa quest'estate, quando mio figlio mi ha portato con lui in Calabria. Ero contenta di essere in vacanza e al ritorno mi sono malata». Il destino, alle spalle. Fruga con la mano nella sportina. Estrae scatolette colorate, con nomi che non riesce a pronunciare. Gliben F. Doxium. Provenal Due. Cardura. Vasoretic. Matrix. Osteofix «Questo lo devo prendere perché ho le ossa piccole». Una scatola costa 49.400 lire. Contiene 30 compresse. Francesca Trichilo ne deve prendere due al giorno. «Non me lo passano più». Fa centomila lire al mese. «Ho la pensione di reversibilità di mio marito morto otto anni fa dopo lunga malattia. Seicentomila al mese, ma da poco. Prima erano quattrocentotrentaseimila. Ma non ero malata. Non dovevo pagare le medicine. Adesso non ce la faccio più. Rinuncio a tutto. Non compro neanche un fazzoletto. Solo da mangiare e le medicine. La casa? Me l'ha riscattata mio figlio, sennò chissà dove mi buttavano. Mi ha salvato lui, che sta sopra, in alto. Vado da lui, venga con me». Apre la porta dell'ascensore. Lasciamo il pianerottolo con la sua pianta sfiorita addobbata da una sola palla di Natale. Blu. Pigia il bottone del settimo piano. Andiamo su. C'è sempre qualcuno che ti salva la vita, in questo condominio. Il figlio di Francesca Trichilo apre la porta in pullover e cravatta. Dalla finestra del suo salottino si domina il quartiere. Entra luce e illumina i mobili in frassino Ikea, le pareti ripitturate, le porte con maniglie lucenti, il videoregistratore. «L'ho ristrutturata io, la casa - spiega -. E soprattutto l'ho riscattata, insieme con quella di mia madre». Eccola, l'altra Italia di via Verga 18. Ha il volto consapevole ma sereno del perito industriale Domenico Pisani, dipendente delle Ferrovie dello Stato, moglie bidella, tre figli che studiano, fisarmonica e spartito sul tavolo, sul quale rotolano le medicine della madre. «Questo è lo scandalo - dice -. Dover pagare queste. Speriamo che lo Stato cambi idea. Prima strafacevano, ora lasciano morire. Noi abbiamo fatto sacrifici, siamo pronti a farne ancora, ma non è giusto. Io mi sono sempre impegnato, ho cercato di arrotondare lo stipendio. Quando mi è nato il primo figlio avevo bisogno di qualcuno che lo guardasse mentre io e mia moglie lavoravamo. Ho pensato a mia madre. Ho versato all'Inps i contributi per questa sua occupazione. Per molti anni. E nessuno ha avuto nulla da ridire. Poi quando è stato tempo di riscuotere per arrotondare la sua pensione hanno mandato i vigili per un controllo. Hanno chiesto dei testimoni del fatto che lei badava a mio figlio. Ho fatto chiamare due famiglie che abitano nel condominio. Davanti al pretore hanno negato di conoscermi, di conoscere mia madre. Come se non ci fossimo mai visti. Da allora non ci salutiamo più. Ma con quei soldi, che l'Inps non mi ha ancora restituito, mia madre potrebbe pagare le medicine, anche se è ingiusto che le tocchi farlo. Ho capito così che il condominio era spaccato, c'era diffidenza, invidia. Io non so dire cos'è l'amicizia. Forse gli amici veri sono solo quelli che tieni nel portafoglio». O forse quelli che suonano alla porta, come Francesco Impedovo, inquilino dell'appartamento di fronte, pensionato delle Ferrovie, che ricorda: «Domenico, in Ferrovia ti ho fatto assumere io». Appena ha potuto se ne è andato. Prepensionato. Anche lui con la casa riscattata. La seconda Italia di via Verga che sente l'odore della crisi, ma lo sente salire dai piali bassi. Eppure sa che sta arrivando. E per non decadere già da ora non va al cinema, non compra più le paste. Come l'altra Italia, quella dei piani bassi. Parlano. Delle auto che non cambiano da dodici anni «anche perché qui non c'è garage e se lasci un'auto buona fuori sotto il porticato te la rubano o se va bene ti fregano tutte e quattro le gomme, come alla tua 131 quand'era nuova, ricordi Domenico?». Domenico fa sì con la testa: «Non c'è neanche la cantina - dice -, la bici di mio figlio la tengo sul balcone, al settimo piano. La usa per andare a scuola. Istituto tecnico industriale, poi si vedrà. Ha avuto la leucemia, grazie alle medicine, ai dottori e al Padreterno l'ha sconfitta. Adesso si stanca in fretta, ma si impegna. Studia. Magari ce la farà anche nella vita. Andrà all'università». Come Giovanni Matta, piano quarto, anni ventiquattro, iscritto a ingegneria, che lascia nell'appartamento riscattato i genitori pensionati, la sorella studentessa ed esce di fretta. E dice: «Sì, la crisi la sentiamo. E certo che rinunciamo alle vacanze. E a sposarmi non ci penso, per ora. Penso a vivere e penso che la vita la devi affrontare con quello che hai». Scende. Al primo piano incontra Domenico Merola che sta uscendo, con la figlia più piccola per mano. Biascicano un saluto. Quello che cammina più svelto, nonostante gli anni e gli affanni, è Merola. Sta andando in ospedale da sua moglie, quella che salva la famiglia tenendola a galla sul mare piatto della periferia, nella palafitta-condominio di via Verga 18. Gabriele Romagnoli Ma nel palazzo c'è una frontiera tra chi ha riscattato la casa e chi ancora paga il canone allo Iacp I mille espedienti per far quadrare il bilancio E i figli disoccupati rimandano le nozze Torino, quattordici appartamenti Al Condomi«Noi, famiglie A fianco Domenico Pisani e la madre Francesca Trichilo, sul tavolo le scatole di medicine che la donna deve acquistare pagandole con la pensione di seicentomila lire al mese