Prendo l' autobus ài benessere di Alberto Papuzzi

I giovani abbandonano gli studi «per opulenza»: verso l'officina e la discoteca I giovani abbandonano gli studi «per opulenza»: verso l'officina e la discoteca SCUOLA ADDIO Prendo l'autobus ài benessere VILLAFRANCA DAL NOSTRO INVIATO «No xè che in casa ghe fosse bisogno dei miei soldi. Volevo l'indipendenza. So' sta mi, sono stato io, a scegliere di lavorare. Per non star sempre a dimandare: papà gavàrìa bisogno, marna ti me dà i schei». Cominciano tutti, o quasi tutti, più 0 meno con queste parole. Diciott'anni, venti, ventidue. Abituati a lavorare da un sacco di tempo: subito dopo la media o un biennio professionale. Alzano gli occhi, dal banco dell'officina, dall'insaccatrice del salumificio, dalla pompa del distributore. Ti guardano tranquilli, rispondono sicuri, niente di strano che un giornalista li intervisti: sanno di essere l'altra faccia del benessere prodotto dalla capillare rete degli imprenditori veneti. Non i giovani-bene, che hanno comunque la strada spianata, neanche quelli che si giocano il futuro sul diploma o sulla laurea: no, questi sono i bravi ragazzi della campagna veronese che lasciano gli studi né per bisogno né per indigenza, come una volta, ma per prendere in corsa l'autobus del benessere, prima che sia troppo tardi. 1 bravi ragazzi casa-officina-barmoto-macchina-discoteca, che sbattono la porta in faccia alla scuola, perché per guadagnare il pezzo di carta tanto non serve. Neanche i genitori, che dal lavoro nei campi sono passati ai calzaturifici e alle concerie, ci credono più al sogno del figlio ragioniere o dottore. «Abbandono per opulenza», lo chiamano i sociologi. Silvano Cirisola, 22 anni: «Certo che a guadagnare delle soddisfazioni te le togli. Vedo una macchina fotografica che mi piace, magari costa un milione ma io la prenoto lo stesso, senza chiedere il permesso a nessuno. No che ogni volta: papà podarìa? C'ho l'Y 10, mica la Ferrari, però l'ho comprata coi miei soldi. A studiare si capisce che per un po' il soldo non lo vedi. Dovrebbero fare come all'estero, che ti prestano i soldi finché studi, quando guadagnerai li restituirai a rate. Qui da noi, invece, uno studia studia e forse dopo, ma molto dopo, riesce a mettere in tasca un franco». Mirko Soave, 20 anni: «Io facevo un bel lavoro: impianti elettrici. Mi piaceva e si fa soldi. Però la ditta a un bel momento ha chiuso, e insomma sono stato un po' a spasso. Adesso lavoro qui con le auto. Qualcuno mi chiede di fare dei piccoli impianti elettrici, solo che non posso firmare i progetti, perché non c'ho il diploma. Se torno indietro, magari ci ripenso. Per carità, non mi lamento: in cinque anni ho cambiato tre macchine, adesso c'ho il R5 giti turbo. Mentre chi va a scuola, di soldi ne vede pochini. Però magari è più libero. Mica a lavorare tutto il giorno e dopo non resta che la discoteca». Uno è operaio alle Officine Tosoni Lino Spa, l'altro lavora in un distributore di benzina. Siamo a Villafranca, provincia di Verona, nella pianura Sud-Ovest, sulla via per Mantova. Ventisettemila abitanti, il castello dell'armistizio, un affollato aeroporto, due autostrade, duemila imprese, con seimila addetti. Una cittadina simbolo del modello veneto: bella, prospera, tradizionale, cattolica. Ma soprattutto produttiva: perché l'attività più diffusa è aprire fabbrichette per far soldi con cui aprire fabbrichette per fare altri soldi. «Le aziende germinano, in tutti i settori, soprattutto per iniziativa di quadri o operai che decidono di mettersi in proprio - mi dice Giuseppe Cartone, presidente dell'Associazione imprenditori -. Non abbiamo più un metro libero per insediamenti industriali. E la cassa integrazione non si sa che cosa sia». Dalla finestra del suo ufficio si vede l'ultimo stabilimento che hanno aperto, dove il vescovo ha celebrato la tradizionale messa natalizia, per tutte le maestranze della zona industriale. Gira gira, non conosce recessioni, questo motore della provincia veneta con il più alto reddito lordo. E come un grande imbuto attira i giovani delusi dall'esperienza sco¬ lastica. Accade anche nelle altre aree di micro imprenditorialità. Nella zona di Bussolengo, dall'altra parte della Milano-Venezia, fitta di calzaturifici, oggi nota per i ragazzi che hanno ammazzato con un masso scaraventato dal cavalcavia: «Dopo la terza media ha cominciato subito a lavorare - raccontava il fratello di uno di loro -, Adesso era in una trinceria di pellami. Non ha mai mancato un giorno. I suoi interessi? La Juve, le moto, le auto, Jim Morrison». 0 nella valle d'Alpone, ai confini con il brulicare delle concerie vicentine, dove il paesino di Montecchia è stato sconvolto dal caso Maso, quattro bellimbusti che massacrano i genitori di uno di loro, «commistione di elementi solidissimi di benessere, ricchezza e stabilità scrive Gianfranco Bettin, autore di un romanzo-reportage sul caso - e di forme singolarmente acute di degrado, di disagio e violenza». Naturalmente le frotte di ragazzi che agli studi preferiscono il lavoro non c'entrano niente con episodi criminali. Ma quelle facce così normali finite sulle pagine di cronaca nera sono le spie dei guasti, delle patologie, che si nascondono sotto il luccichio del benessere e «l'abbandono per opulenza». C'è un momento in cui qualcosa si spezza. In qualcuno esplode, i più si adattano. Ma, contrariamente alle apparenze, buttar via la scuola a quell'età lì è sempre una sconfitta. La busta paga ti fa comodo. La scuola ti ha rotto le scatole. Vedi i compaesani col diploma che si arrangiano nei lavori stagionali del turismo gardesano. Lo dicono anche alla televisione che c'è la disoccupazione intellettuale. Allora fai una semplice equazione: il lavoro subito vale più degli studi superiori. «E' diventato difficile trasmettere l'idea dell'utilità degli acudi», ha detto Gino Lunardi, preside delle medie di Montecchia, intervistato a «Milano Italia». «Sembra incredibile, ma il Veneto ha il tasso minimo in Italia di scolarizzazione superiore - mi spiega il sociologo Carlo Borzaga, dell'Università di Trento, che ha condotto una serie di ricerche sul mercato del lavoro veneto -. Perché ha anche il mercato del lavoro più equilibrato, almeno finché tira l'economia della piccola impresa. Dove ci sono le grandi industrie, è tutto diverso, ma il piccolo imprenditore veneto, l'artigiano che mette su l'aziendina, prendono chiunque, pur di pagare poco la loro forza lavoro. Perciò è più facile che riescano a trovare un posto quelli che si trovano male a scuola. Anche se i lavori che vanno a fare sono in genere gli ultimi della scala». In realtà Verona e il Veneto sono la punta di un iceberg. La rinuncia agli studi dopo le medie corre sotto la crosta di tutta l'Italietta del benessere: «Il quarantatre per cento dei diciottenni maschi non arriva al diploma, non solo nelle regioni meridionali ma anche nelle aree ricche - mi dice il sociologo Maurizio Sorcioni, ricercatore del Censis, responsabile della formazione -. Dai nostri dati risulta che il fenomeno è diffuso nelle famiglie con bassa scolarità: far studiare il figlio, a costo di sacrifici, che era l'ambizione di operai, artigiani, bottegai, è un modello in crisi. Il lavoro appare un investimento più redditizio: è l'idea dell'idraulico che guadagna un sacco di soldi». Sotto sotto c'è anche un'antica diffidenza della cultura rurale per il «pezzo di carta». Nelle campagne lo si è sempre detto: «Prima se va a laorar e mejo xè». Nel senso che lavorare è essenzialmente una cosa: far soldi. Borzaga: «Questi ragazzi ereditano e riproducono una visione estraniarne del lavoro: né per carriera, né per passione, né per la morosa o la famiglia. Solo per il reddito». Loro lo confermano: «Il futuro? Certo non è roseo - mi risponde un apprendista operaio diciassettenne - ma io sono giovane: vado a sciare la domenica, vado in disco il sabato. Problemi di soldi non ne ho. Ci penserò quando sarà l'ora». I più vecchi, come Cirisola, hanno capito che qualcosa non funziona: «Visto che di studiare non avevo voglia sono andato a lavorare, anche se i miei mi sconsigliavano. Avevano ragione loro e rimpiango di non aver studiato. Chi ci invidia venga a fare la vita dell'operaio». Però, nel quartiere Iacp che chiamano Bronx, dalla morte di un ventenne in una zuffa tra bande, trovi gli.altri sedicenni, diciassettenni, che hanno mollato la scuola, han lavoricchiato chi qua chi là, cercano di campare rivendendo ferrovecchio. Non so se anche da queste parti li chiamano i tarri o i truzzi. Loro stanno proprio sul gradino più basso e quelli che hanno il posto in fabbrica gli sembrano dei privilegiati. Alberto Papuzzi Indagine a Verona: il nuovo fenomeno si estende a tutto il Nord Qui accanto: Pietro Maso. Nella foto grande: ragazzi impegnati al lavoro anziché in discoteca Gianfranco Bettin