Il gran giorno delle mezze tacche

Il gran giorno delle mezze tacche Il gran giorno delle mezze tacche E tra peones e portaborse domina «'0 ministro» TESTIMONI ALLA SBARRA LMILANO A chiameremo la giornata dei portaborse e delle mezze tacche. Ma proprio per questo non è stata una giornata qualsiasi, quella di ieri al processo Cusani. Anche perché ieri qui a Milano si è svolta in pompa magna l'apertura dell'anno giudiziario e, ovvia conseguenza, è stata celebrata proprio questa inchiesta rivoluzionaria che ha portato al collasso della prima Repubblica. Infine - ed è stato il pezzo semi-forte di una giornata non esaltante - ieri sera si è visto in aula un Paolo Cirino Pomicino grintoso, scattante, e tuttavia non spettacolare, che si è battuto come un gatto contro Di Pietro, riuscendo a schivare il suo contrattacco per un pelo grazie alle decisioni pacifiste del presidente del tribunale. Di Pietro infatti è stato di nuovo sconfitto da Tarantola, che gli ha negato il confronto fra Pomicino e Sama. Materia del contendere: i quattrini (700 o 500 milioni) che Sama dice di aver spedito al ministro attraverso Bisignani (versione confermata dallo stesso Bisignani), ma che «'0 ministro» nega di aver mai visto e ricevuto. Il massimo esponente della scemata «corrente del Golfo» ha sostenuto con faccia di bronzo di essere attendibile per motivi, come dire, induttivi: «Io ho confessato a Di Pietro di aver avuto dei soldi che nessuno sapeva che io avessi preso, dunque che ragione avrei di mentire su questo punto?». Ma Di Pietro, più che mai in grazia di Dio, gli ha quasi urlato in faccia: «Non è vero! Qui negano tutti, hanno sempre negato tutti: si precipitano ad ammettere solo quando vedono che non possono far altro...». Il presidente Tarantola, flemmatico, serafico, riflessivo e sornione ha osservato che ogni imputato (e Cirino Pomicino è imputato di reato connesso) ha il diritto di mentire per difendersi, e che dunque non è il caso di prendersi la pena di tartassarlo per fargli sputare la verità. E' stata una di quelle circostanze in cui improvvisamente ci si ricorda che qui si fa il processo a Cusani e non, invece, a tutta la processione di indagati, inquisiti, incriminati e manigoldi che arrivano alla sbarra come testimoni. Come si sa, questo è un processo ondivago: un giorno si processa Cusani e un giorno si processa il regime, o la nomenklatura, o la prima Repubblica. Ieri Di Pietro aveva voglia di stritolare Pomicino e costringerlo a confessare di aver intascato denari nel 1992 (dunque in piena torta Enimont). Ma, come abbiamo detto, Tarantola ha negato. E va notato, come dettaglio illuminante, che alcuni giornalisti americani venuti a raccontare la «soft revolution» italiana, si sono scandalizzati per la spiegazione secondo cui ogni imputato ha pieno diritto di prestare falsa testimonianza, apparendo questo, al loro modo di vedere calvinista, un barbarismo bizantino: «Da noi non è ammesso che l'imputato menta. Può invocare il quinto emendamento e tacere, ma non mentire: se lo fa viene condannato». Altre visioni giuridiche, e probabilmente siamo ancora lontani da quel «processo alla Perry Mason» che tutti vorremmo. E di visioni giuridiche, nonché politiche connesse, si è parlato ieri mattina al palazzo di Giustizia, dove il procuratore generale presso la corte d'appello Giulio Catelani ha svolto una lunga relazione in cui ha fra l'altro difeso l'uso della tv ai processi ed ha auspicato una legislazione urgente in materia di tangenti che serva a tamponare la situazione. così come si fece ai tempi del terrorismo con apposite leggi. La seduta del processo è cominciata alle 15,30 quando Di Pietro, in un vestito blu di fattura un po' sovietica e cravatta pessima, è entrato allegrone nell'aula che somigliava a una classe di liceo durante l'ora di supplenza. E' corso dall'imputato Sergio Cusani, seduto solo e sparuto al banco, lo ha coccolato, gli ha dato la mano e si è seduto vicino a lui. Più tardi lo abbiamo visto fuori dell'aula passeggiare con Cusani come se fosse un suo vecchio amico. Del resto Di Pietro è fatto così: ha un tempera- mento gioviale, giocoso e sinceramente cordiale. Abile psicologo, sa che non si fa gol in materia di delitti se non si usa la tecnica del commissario Maigret: lasciar parlare, far finta di niente, permettere agli eventi di maturare. A chi gli faceva ancora pesare, qualche giorno fa, la sua contestata bonomia e condiscendenza verso Craxi (che dovrebbe tornare qui il 20, ma che secondo voci di corridoio medita di disertare), ha risposto sorridendo: «Quello che molti non capiscono è che io sono un investigatore e che un investigatore usa qualsiasi mezzo e abito psicologico per arrivare alla verità». Dopo alcune deposizioni insignificanti, ecco Emilio Rubbi, democristiano e successore del senatore Citaristi. Lo interroga la difesa (Spazzali era assente) e non riesce a fargli dire in condizioni erano le casse del partito. Il pm ruba la scena e dà lezione di brutale semplicità: «Insomma, la cassa era vuota o era piena?». Il pubblico accenna a un applauso. Siede alla gogna Viscardi Michele, democristiano della sinistra sociale. Di Pietro con aria nauseata: «Lei è parlamentare della Repubblica?». Risposta: «Sissignore». Ha preso soldi? Sì. Quanti? «Non li ho contati». Il pubblico esplode in una risata imbarazzante. Di Pietro si infuria: «Beh?». Il poveretto cerca di nobilitarsi tirando dentro Pastore e Zaccagnini, ma sia Di Pietro che Tarantola lo fanno nero. Processo lampo, esecuzione televisiva immediata. Sotto un altro. Fiandrotti Filippo. Socialista di sinistra. Vuo¬ le le telecamere?, chiede ritualmente Tarantola. «Sì, anzi: credo che sia una buona occasione...». Poveretto, non sa come uscirà dall'aula. Si parla sempre del «pr» dei Ferruzzi, quel gentile signor Portesi, che portava buste e valigette con manciate di milioni a nome, ora della famiglia, ora del gruppo. Il Fiandrotti viene cucinato a fuoco lento e malgrado le sue proteste, i mille tentativi di distinguere e spiegare, fare un passo indietro e chiarire un attimo, fa una figuraccia da cani. Infatti si apprende che il valentuomo era deputato, membro della commissione Indu¬ stria, si occupava di una legge che interessava una delle aziende Ferruzzi e intanto si era offerto come procacciatore d'affari, portaborse e sbrigapratiche per la stessa Ferruzzi e in vista degli esiti della stessa legge che, come deputato e membro di commissione parlamentare, stava curando. E sostiene anche, con gelida coerenza leninista, di averlo fatto nell'interesse degli operai, sempre primi nel suo cuore. Figura non meno deprimente quella del suo sventurato portaborse, tal D'Adamo, un triste giovine bruno e occhialuto, sudato e frettoloso, che ha soltanto dovuto confermare che gli toccò anche di portare la borsa con il malloppo per il solito «contributo» per il suo padrone. Se ne va a capo chino, a rapidi passi verso ''uscita. Infine il «vero D'Addario», così chiamato perché un innocente omonimo era stato qui trascinato, esposto alle telecamere e al ludibrio dai figli: «Papà, che cos'hai fatto?». Il «vero D'Addario» è un onorevole che ha intascato mazzi di buoni di benzina che, dice, dovevano valere meno di 5 milioni, la cifra minima non denunciabile. Scena comica, perché cerca di salvare capre e cavoli: gli sembra che fossero solo quattro milioni, ma certo ammette di aver contato quei buoni con una certa fretta: «Che vuole, presidente, eravamo in campagna elettorale». Poteva, l'onestuomo, trovare il tempo per vedere quanti soldi in liquida benzina gli mettevano in tasca? Paolo Guzzanti Il pm fa il Maigret: io sono un investigatore E per arrivare alla verità posso usare qualsiasi mezzo e qualsiasi abito psicologico «E questo Portesi le ha mai dato cento lire?». «Come sarebbe, cento lire?». «Dico: cento lire che siano cento lire Portesi, a lei, gliele ha date mai, sì o no?». «Sì». «E quante erano 'ste cento lire?». «Quindici milioni». «Oooh...». Di Pietroe l'ex on. Fiandrotti Filippo del psi Filippo Fiandrotti Da sinistra la deposizione di Paolo Cirino Pomicino e il presidente del tribunale Giuseppe Tarantola

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