Vecchio arsenico e nuovi Broccoletti di Filippo Ceccarelli
Vecchio arsenico e nuovi Broccoletti IL PALAZZO Vecchio arsenico e nuovi Broccoletti ELENI, veleni. E dagli con questi veleni: una pozioncina, una fialetta, una tazzulella di caffè corretto al gusto di mandorla. Veleni di pigrizia giornalistica e di smarrimento politico, veleni allegorici abbinati a tutto quel che si muove o che sta fermo in questo losco passaggio d'epoca. Una ripetizione, anzi una moltiplicazione contagiosa e sintomatica, una specie di ritrovata smania nazionale che forse pesca in qualcosa di profondo e comunque conferma l'idea che all'estero, specie nei Paesi anglosassoni, si ha degli italiani come crudeli, appunto, avvelenatori: vedi l'ambasciatrice statunitense a Roma Clara Booth Luce che a lungo sospettò le stessero facendo quello scherzetto un po' alla volta, in modo efficacissimo e perfino elegante con le tinture e le vernici della sua camera da letto. Del tutto inopportuna, perciò, se solo si pensa alla presente, smodatissima «avvelenata» di fine regime,, la rivalutazione dei Borgia effettuata da qualche cattolico in vena di paradossi al riminese Meeting - pensa tu - dell'Amicizia, anno 1991. Connesso quant'altri mai alla necessità innocente e primordiale di ingurgitare cibo, mai come adesso in Italia l'inganno del filtro assassino tocca corde lontane ma sensibilissime, stimola nervi scoperti e finisce per travalicare i confini della metafora. Per cui, una volta in carcere l'avvelenatore traslato per eccellenza è proprio il direttore amministrativo del Sisde Broccoletti che teme di venire avvelenato sul serio. I veleni carcerari, quindi, i veleni giudiziari, i veleni elettorali, i veleni delle bobine del Sisde, i veleni, perfino, della Rai. Vago, ma efficace. Molto di moda. Basta digitare la paroletta in una qualsiasi banca dati 1993-1994 per scoprire che quasi ogni pubblico personaggio si tiene stretto il suo veleno optional: «Velenosi sospetti» (Fini); «I peggiori veleni del Transatlantico» (Amato); «Un Paese che affoga nei veleni» (Celentano); «Veleni di vertice» (Occhetto); «Veleni personali» (La Malfa); «Non per niente Falcone chiamava il Tribunale di Palermo Palazzo dei veleni» (Andreotti). L'abuso non solo lessicale, com'è ovvio, sta già portando a grottesche intossicazioni della logica. «In questo periodo in cui i veleni si toccano con mano...»: dai teleschermi, con l'aria preoccupatissima, il piccolo chimico Emilio Fede ha annunciato inediti processi di solidificazione. Sull'Indipendente, pure a proposito di quel grazioso posticino che è la Procura di Roma, s'è letto di «veleni nel porto delle nebbie»: il che, francamente, richiede un eccesso di immaginazione. Del tutto superfluo. Ce ne fossero pochi nella storia criminale e non solo della Prima Repubblica, di morti ammazzati con quel sistema rapido e pulito. Si parte da Gaspare Pisciotta, il luogotenente «pentito» del bandito Giuliano cui si deve l'uso proverbiale della tazzina di caffè servita in cella, e si arriva all'ipotesi che addirittura un pontefice, Giovanni Paolo I, sia stato sistemato in quel modo. Quasi che ogni vicenda scabrosa, ogni scandalo, ogni corsa verso il potere abbia i suoi veleni. E infatti si riparte con il cianuro che i golpisti intendevano versare nell'acquedotto di Roma e si giunge all'ultimo caffè di Sindona, passando per l'invito a cena con delitto dei corleonesi ai danni del boss Riccobono. Pure di Valerio Borghese e di Pietro Secchia, in singolare simmetria estremistica, si disse che erano stati avvelenati. Adesso, con qualche ragione, temono gli spioni. Arsenico & Broccoletti. Filippo Ceccarelli emj
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