la strega, il diavolo e il cavaliere di cuore di Giorgio Pestelli
la strega, il diavolo e il cavaliere di cuore Chailly ha diretto alla Scala un'ammirevole edizione dell'«Angelo di fuoco», regia di Cobelli la strega, il diavolo e il cavaliere di cuore Un Prokofiev esuberante, tra sabba, scheletrì e grandi trovate MELANO. Dopo un'antica quanto memorabile edizione deH'«Amore delle tre melarance», la Scala è tornata a Prokofiev con l'«Angelo di fuoco», opera che al suo apparire postumo, a Venezia nel 1955, fece gridare al capolavoro e che poi si è mantenuta onorevolmente in cartellone anche in Italia (alla Scala mancava dal 1970). Anche questa volta il teatro milanese ha allestito un'edizione di grande rilievo, diretta splendidamente da Riccardo Chailly e con regia di Giancarlo Cobelli e scene di Paolo Tommasi intonate all'esuberanza e all'esasperazione della materia teatrale: materia derivata dal romanzo di Valeri] Briusov, ma ridotta a libretto da Prokofiev allo stato semianarchico, senza un preciso orientamento drammatico salvo quello della metafora musicale. Agli esordi degli Anni Venti Prokofiev voleva entrare nella Casa dell'Opera per fare il maleducato e dire parolacce; c'è quasi una forma di disprezzo per la logica teatrale di Wagner, o di Ciaikovskij, o dell'opera italiana in genere; lui lavora per situazioni staccate, sostenuto dal temperamento e dall'impulso vitale, ma qui, in assenza di un libretto con una vera ossatura, le situazioni si sovrappongono e si ripetono e il senso della vicenda appare e scompare. La protagonista Renata è come predestinata alla sua fine, condannata al rogo come strega; ha rapporti col demonio, da lei creduto un angelo circonfuso di fuoco che già le appariva nella prima giovinezza; il cavaliere Ruprecht, volendo salvarla, si dà a studiare la magìa nera, consulta Agrippa di Nettesheim, Faust e Mefist.ofele, ma ritroverà Renata come novizia nel convento di Ulf, in tempo per assistere a una satanica sarabanda e alla condanna finale. La vitalità dell'opera, oltre ai quadri minori, l'ostessa, l'indovina, Mefistofele, di schietta matrice russa, gogoliana e grottesca, prende quota quando sul suo ritmo motorico e ostinato Prokofiev mette una velatura stregata di demonismo: violini con sordina, basso tuba e il vuoto in mezzo, legni e arpe che bubbolano, dolcezze melliflue, coro sillabato delle monache invasate, come un disperato sabba di insetti; idea straordinaria sono poi i colpi del soprannaturale che bussa alla porta e tutto il sinistro dialogo di Agrippa e Ruprecht, con gli scheletri che origliano dall'ombra. Vitalità, come s'intuisce, che ha la sua leva nella partitura orchestrale e che è stata capita e realizzata da Chailly con dosature e impeto ammirevoli; ma degni di ammirazione anche i cantanti, Galina Gorchakova e Sergej Leiferkus, due protagonisti da ricordai e, Paata Burchuladze possente Inquisitore, Kostantin Plujnikov quale Mefistofele e via via senza lacune tutti gli altri. Gli applausi sono stati trionfali sopra tutto alla fine, dopo che il colore rosso ha invaso ed esaltato l'ultimo quadro. Giorgio Pestelli Kostantin Plujnikov, Mefistofele
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