SARTORI, LE RICETTE PER CURARE LA TELEVISIONE SENZA QUALITÀ
SARTORI, LE RICETTE PER CURARE LA TELEVISIONE SENZA QUALITÀ SARTORI, LE RICETTE PER CURARE LA TELEVISIONE SENZA QUALITÀ LA qualità televisiva di Carlo Sartori (Bompiani, pp. 322, L. 28.000) esce nel peggiore dei momenti. Non parlo dell'Italia e del vasto ma ancora impreciso piano di riorganizzazione di quell'insieme di segnali tecnici, umani, sociologici, politici, che chiamiamo «la televisione». Parlo del mondo, di tutto l'universo industriale intensamente frequentato dalla conversazione televisiva e in cui quella conversazione si fa da un lato più forte, dall'altro più incerta, confusa. Ma il libro di Carlo Sartori esce, anche e paradossalmente, nel momento migliore. Il «ripensamento» italiano non è che il frammento di un ripensamento più vasto, che coinvolge Paesi in apparenza liberi dalla crisi che riguarda l'Italia, eppure intensamente al lavoro per «cambiare» prima di tutto, più di tutto, la televisione. Per dimostrare la contraddizione che ho appena descritto, userò due frasi. La prima è di Neil Postman, la voce americana più critica del fenomeno televisivo, in un dibattito alla New York University ha detto: «Due terzi della nostra vita sono televisione». Cioè effimero, cioè niente? Nonostante il radicalismo critico di Postman, mi sembra più ragionevole interpretare la frase così: due terzi della nostra vita sono Tv così come quattro quinti del nostro corpo sono acqua. L'acqua non ci nutre. Ma è indispensabile. Dato il tipo di mondo in cui viviamo, lo è anche la televisione. Quale? Ecco la seconda frase. E' di Michelangelo Antonioni. E' la spiegazione della svolta che aveva deciso di dare al suo lavoro, al suo cinema. Ha detto: «Correvo davanti alla realtà», cercando di airivare un po' prima. Mi sono accorto che la distanza si accorciava, che la realtà mi stava addosso, che ero ormai costretto a procedere allo stesso passo. Allora ho deciso quello che resta da fare: perfezio¬ nare l'immagine». Chi conosce Antonioni sa che il grande regista italiano non intendeva dedicarsi al perfezionamento formale, che nei suoi film - aveva già spinto a un grado molto alto (molto più alto del «nonnaie») di efficacia e bellezza. Antonioni pensava a ridare all'immagine il ruolo originale che aveva avuto la pittura in altri secoli quando l'artista - allo stesso tempo - ritraeva la realtà e serviva al compito sociale di offrire le figure della educazione mistica, di quella politica e della narrazione del tempo. Ma «in sé» quella immagine - che pure sembrava cronaca - era il passo avanti della vita culturale, dell'immaginazione, dell'arte. Non è necessario usare alla lettera l'ammonizione di Antonioni o l'apparente pessimismo di Postman per far luce sul lavoro di Sartori, ma queste che ho appena annotato sono certo parole chiave. L'indispensabilità del mezzo e il rigore del «come intervenire» sono il terreno di lavoro di questo libro. Sartori si muove fra mezzi tecnici, organizzazione sociale, revisione del lavoro, identificazione dei programmi, confronti intemazionali. E accumula, come ha fatto nel precedente La grande sorella, una grande quantità di materiale. Di solito chi si dedica ai grandi inventari non sta seguendo un'ipotesi teorica. E chi lavora sulle teorie del mezzo si basa su quello che conosce e sull'incrocio con altri strumenti culturali. Sartori ha il doppio talento della vastità dell'inventario e di un suo modo di lavorare nel quale non chiede prestiti ad altri settori di cultura e di critica, benché sia bene orientato e bene informato sui dibattiti con cui la cultura colta si china sul lettino della televisione vista sempre come genere inferiore e malato. Vede che la televisione è il cuore di ciò che chiamiamo comunicazione, che la comunicazione è il
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