Dal grande salvataggio al «regno» di Mattioli di ZeniFrancesco Cingano

Dal grande salvataggio al «regno» di Mattioli Dal grande salvataggio al «regno» di Mattioli CENTO ANNI NEL CUORE DI MILANO MILANO. Cento anni in piazza Scala, prima in un palazzo come tanti al numero 3, poi nel palazzone primo Novecento voluto grande e maestoso proprio perché grande e maestosa doveva essere l'immagine della Banca Commerciale. Nasce lì, in quel quadrilatero scaligero, nel cuore di Milano, la storia della Comit, la banca più famosa, la più prestigiosa, quella che ha intrecciato più di ogni altro istituto di credito i propri destini con quelli dell'economia italiana. Era il 1894, anno di grande fermento per un'industria che cominciava ad affermarsi ma che anche allora, antico problema, soffriva di carenze di capitali e di mezzi finanziari. L'aiuto arriva dall'estero. Dai Paesi della Mitteleuropa, dalla Germania, dalla Svizzera, dall'Austria. Capitali e banchieri. Sono capitali soprattutto tedeschi anche quelli della neonata Comit: 20 milioni di lire («Con possibilità di aumentare a 50», recita l'atto costitutivo) e uomini che arrivano dalla città più ricca d'Europa, dalla Berlino di fine secolo, i primi responsabili con nomi che tradiscono l'origi- ne ebrea, Otto Joel e Federico Weil. Sono loro che firmano l'atto di nascita quel 30 novembre 1894 di una banca che in sigla, per le comunicazioni via telegrafo, si fa chiamare Comitbank con la k. Poi arriverà Giuseppe Toeplitz, polacco d'origine, italiano d'adozione, nipote di Joel, il primo grande banchiere in piazza Scala, il primo a fare della Commerciale la banca della grande industria nascente. Anni di sviluppo e di successo. Poi la crisi del '29 che dall'America contagia anche l'Italia e la Comit. Travolto dalle difficoltà delle aziende finanziate e controllate, mezzo sistema bancario italiano è in bancarotta. L'Iri salva tutti, anche Comit, Credito Italiano e Banco di Roma che passano dai privati allo Stato diventando (nel '37) banche d'interesse nazionale. Il prezzo da pagare, per la Comit, è l'uscita di scena di Toeplitz, sostituito dal suo giovane segretario, Raffaele Mattioli. Nasce così il secondo mito della Commerciale. Mattioli, il banchiere letterato ed editore (I Classici italiani di Ricciardi), antifascista e laico, protettore di uomini invisi al regime come Ugo La Malfa, ma così potente da non essere mai scalfito da Mussolini. Caduto il regime, finita la guerra, Mattioli resta in piazza Scala, al suo posto. L'Italia deve essere ricostruita e Mattioli crea lo strumento adatto: Mediobanca, subito affidata a un giovane dell'ufficio studi Comit, Enrico Cuccia. Punto di riferimento obbligato della grande industria, privata ma anche pubblica, la Commerciale non fatica a diventare la prima delle tre Bin, la più internazionale, la meno «romana». Riesce infatti negli anni, anche in quelli della lottizzazione più selvaggia, a mantenersi autonoma dalle incursioni politiche. Il suo management, fatta eccezione per la breve presidenza di Gaetano Stammati, è espressione interna. L'autonomia è gelosamente difesa: alla poltrona di presidente si succedono Antonio Monti, Francesco Cingano, Enrico Braggiotti, Sergio Siglienti. E con l'autonomia, o forse grazie a questa, aumentano il prestigio e il potere: non c'è grande avvenimento economico, grande operazione industrial-finanziaria che veda la Comit assente. Passano da lì, dal grande portone di piazza Scala, tutti i «grandi», molti dei quali tradizionalmente passano per il consiglio d'amministrazione, da Giovanni Agnelli a Leopoldo Pirelli. Cento anni di vita, sessanta di proprietà pubblica. Adesso la Comit si prepara a ritornare privata, inaugurando la terza fase proprio nell'anno del centenario. Ma è sempre lei la più desiderata tra i grandi istituti italiani: quella sulla cui privatizzazione, non a caso, si sono scatenate la più accese diatribe. Per il ritorno al futuro, appuntamento tra sei settimane. Armando Zeni Tutti i «grandi» dell'industria sono passati di lì In alto Raffaele Mattioli a destra Francesco Cingano