Cossiga, il cerimoniere della secessione bianca di Filippo Ceccarelli

Cossiga, il cerimoniere della secessione bianca Cossiga, il cerimoniere della secessione bianca IL RITO DEL DIVORZIO n ROMA I N caso di scissione, dunI que, rivolgersi a Francesco Cossiga. Sia pure come «testimone e comunicatore» come ci ha tenuto a puntualizzare, e non come «mediatore». Di che, poi? E fra chi? La secessione bianca e neocentrista si dà ormai per scontata. Lo cogli dalle consultazioni parallele e istituzionalizzate, dalla mobilitazione organizzativa (con tanto di nomina di coordinatori regionali e locali), dalla mancata adesione, sempre in periferia, di democristiani ai nuovi «partiti popolari» a base regionale che sono via via nati negli ultimi tempi, dalla sempre più netta previsione, infine, che martedì 18 molti deputati non si presenteranno all'appuntamento convocato da Martinazzoli. Nè, a maggior ragione, qualche giorno dopo, il 22, alla convenzione che dovrà vedere la nascita del ppi. I margini, insomma, paiono del tutto esauriti. Manca solo l'armamentario atmosferico più avvelenato in casi del genere, la lite patrimoniale, o quella legale sui simboli e sui nomi. Ma forse basta solo un po' di pazienza. Ormai posta sul piano inclinato, la scissione è nei fatti e le due parti, meglio i due partiti «gemelli» di cui parlò a suo tempo l'onorevole D'Onofrio, non solo l'hanno già ampiamente compreso, ma ci si stanno anche abituando. Meno da facile da capire, a questo punto, oltre che interessante da seguire è il ruolo di Cossiga. Che di questa esangue, educata e perfino elegante rottura neo-centrista sembra, al tempo stesso e senza vistose contraddizioni, il notaio, il precursore, lo spettatore, l'ispiratore e l'inconsapevole regista. Ma soprattutto, al momento, il maestro di cerimonie. La dimensione totalizzante dei partiti di massa - o almeno quel che ne rimane - quel tanto di mitico, umano, familiare su cui sono, meglio erano fondati impone che in qualche modo venga celebrato un rito. E il rito scissionistico vuole che chi più è determinato a rompere, più si mostri avvilito e costretto a resistere in nome dell'unità (perduta, ormai) e appaia costretto all'irreparabile da circostanze cui non si può resistere. Uno dopo l'altro e in totale buonafede Martinazzoli, i neocentristi, la Jervolino, Forlani (che ha scritto la sua bella letterina), De Mita (che ha incontra- to un sacco di gente) e l'emergente Buttiglione, pure circondato da un'aura vaticana, hanno già svolto questa parte. Ieri è toccato al personaggio che prima di tutti gli altri, nel partito e poi fuori, aveva lucidamente intuito che il prossimo terremoto del bipolarismo, l'epicentro, la linea di faglia tellurica avrebbe devastato proprio lo spazio democristiano. Anche per questo il vivo interessamento di Cossiga, il suo attivismo meditato, implicano un che di definitivo, e sintomatico. Comunque ieri, di buon mattino, nel suo ufficio a Palazzo Giustiniani, l'ex presidente della Repubblica ha incontrato per tanto, tantissimo tempo (quattro ore) Mastella, D'Onofrio, Lega e Casini, cioè la nouvelle vague dei quarantenni in conflitto sempre più irrecuperabile con Martinazzoli. Nel pomeriggio, alla buvette della Camera, ha preso un caffè con Mariotto Segni, a suo tempo autore di una secessione meno individuale che quel che sembrasse in un primo momento. E quindi si è prenotato un appuntamento con Martinazzoli. Al termine dei colloqui ha parlato più di tutti gli altri, Cossiga, come se l'inedito ruolo di portavoce fosse stato concordato. Ha parlato con moderazione, prudenza e acume, lasciando intravedere pochissimo, e quel pochissimo l'ha pure ammantato di generosità. Ha spiegato il suo impegno con «la sofferenza sentimentale» che prova per il suo ex partito che sta finendo in pezzi. Ha riconosciuto la legittimità della presenza dei cattolici in vari partiti, arrivando a dichiarare il proprio rispetto per Scoppola, Gorrieri, Camiti e perfino per quelli della Rete, che non sono — ha garantito — «i figli della serva». Solo con la Rosy Bindi non ce l'ha fatta a resistere (e infatti è risultato un po' fumoso, invorticandosi in uno strano discorso di lui che non si offende se non lo ricevono, mentre la Rosy deve essere sempre ricevuta...). Più cavallerescamente ha riservato parole di riguardo anche per il fronte progressista, mentre si è detto dispiaciuto per la difficoltà in cui si dibatte l'altro fronte, il suo, ovviamente «liberal democratico». E' stato molto attento a non lasciarsi schiacciare sulla vecchia nomenklatura che del resto aveva picconato. Eppure — ecco il cerimoniale — neanche sugli scissionisti, che d'altra parte sono costretti a riconoscere oggi quello che lui diceva da tempo (alcuni anche contestandolo). Meno male, viene da pensare — ma non è certo la prima volta ■— che solo un paio di mesi fa Cossiga aveva più che ventilato l'ipotesi di trasferirsi a Tolosa, «in esilio». Evidentemente la voglia deve essergli passata, se si pensa che da quel momento, tra una rivelazione di piani Mike e Viktor e ironie sui pericoli di golpe («Dio volesse che in Italia ci fosse la possibilità di farlo, non c'è nessuna possibilità»), tra rivelazioni, lettere di proteste contro la Rai consegnate a mano a viale Mazzini («Chi è il presidente? Demattc? E chi è?», doppi voti al comunedi Roma (prima Rutelli e poi Fi¬ ni) e perfino un incontro con gli studenti del liceo Dante (occupato), ecco, l'ex presidente si è imbarcato in questa vana intercessione. Che difficilmente sortirà l'effetto di quell'altra effettuata su richiesta di Patrizia Brenner allorché Cossiga, come ha raccontato e illustrato di recente Novella 2000 «ha fatto pressioni perché Sgarbi riconosca il piccolo Carlo». E ci è riuscito. Filippo Ceccarelli A sinistra Francesco Cossiga A destra Clemente Mastella, Pierferdinando Casini e Vittorio Sgarbi L'ex Presidente è l'inconsapevole regista di questa educata rottura Ma quanta «sofferenza sentimentale» per la morte del partito di massa Chi c'è, chi mancherà al battesimo del nuovo ppi

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