L'attore parla di sé della sua fede «Non è vero che mi son perso in Tibet» di Simonetta Robiony

L'attore parla di sé, della sua fede: «Non è vero che mi son perso in Tibet» L'attore parla di sé, della sua fede: «Non è vero che mi son perso in Tibet» ROMA. Da Richard Gere uno s'aspetterebbe che parlasse di macchine, donne, cavalli, denaro, avventure. A vederlo così aitante, l'occhio ammiccante tagliato stretto, il capello grigio lungo sul collo, il sorriso, nessuno potrebbe sospettare che il suo tema preferito di conversazione sia l'equilibrio psicofisico, quella difficile combinazióne tra salute del corpo c serenità dell'animo, quel miscuglio tra ossessioni distruttive e aneliti trascedenti, quella tempesta di passioni e pulsioni che s'aggroviglia nell'animo umano. Invece Gero è proprio questo: un cultore della psiche, un analista dello spirito, uno sperimentatore dei legami umani. Per di più esercitato da vent'anni di pratica buddista, da acute letture di psichiatria e medicina, da una laurea in filosofia presa in una delle migliori università del Massachusetts. E dal momento che il film «Mr. Jones» affronta esattamente il tema di quella particolare malattia mentale che fa oscillare il paziente tra euforia e depressione, ecco che l'incontro si trasforma immediatamente in una sorta di lezione, con lui che parla per oltre un'ora e mezza, senza mai perdere fiato o pazienza, e l'interlocutore che finisce per rivolgergli quesiti personali sui grandi problemi del bene e del male, come in una terapia di gruppo un po' selvaggia. Su quest'argomento, Richard Gere sta scrivendo un libro, «Guarigioni», in cui più o meno sostiene che dietro ogni risoluzione medica c'è anche una conversione spirituale, in quanto non v'ò malattia fisica senza disagio psichico. L'opposto di ciò che pensa Nanni Moretti, insomma. Sarà per questo suo essere «diverso» che Hollywood su di lui si diverte a far circolare pettegolezzi sempre più curiosi e infamanti come quello che il suo matrimonio con Cindy Grawford sia in realtà un patto societario tra due individui nient'affatto interesssati a legami eterosessuali, o quello che Gore sia finito in ospedale per pratiche erotiche con topi e altri piccoli animali. L'ultima è di poco prima di Natale: l'avrebbe visto prigioniero nel Tibet di una banda di ricattatori. «Una balla incredibile inventata da qualcuno per far soldi», commenta lui. «Per di più totalmente infondata. Telefonavo tutti i giorni a mia moglie. E poi chi avrebbe dovuto rapirmi? I tibetani sono amici miei e i cinesi non sono mica scemi da volere uno scandalo di queste proporzioni». Ma è stata la sola digressione, questa sul Tibet, che Gero s'è concesso. Per il resto, questo simbolo del fascino virile Anni Novanta, ha parlato unicamente di tecniche per imparare a sopportare meglio la nostra vita. In tutti i suoi film mette una parte di se stesso? «Io sono buddista: non divido né etichetto l'esistenza in parti diverse come si fa in occidente. Io sono io, e voi che fate le domande, prima di ogni altra cosa, siete degli individui come me. E' naturale quindi che scelga i film tra i soggetti che possono interessarmi». Cosa ci deve essere in una proposta perché le piaccia? «Un'analisi dei rapporti umani approfondita, il bisogno di lasciar vivere i desideri più profondi, la lotta tra conformismo e creatività. Inoltre voglio che il racconto abbia la scansione di uno spartito musicale, perché credo che la musica sia il linguaggio più perfetto e universale che l'uomo abbia inventato. Da ragazzo ho suonato in diversi gruppi, dal jazz al rock, e ancora oggi mi chiedo se non avrei fatto meglio a fare il compositore. Per ora mi accontento di sperare di poterne interpretare uno sullo schermo». Spesso però i suoi film somigliano a delle favole.... «Il cinema in fondo è proprio questo, una sala buia nella quale tornare bambini e fingere di credere che quel che succede su un telone sia proprio vero». Lei dice di esser stato molto aiutato dal buddismo. Aveva bisogno di aiuto? «Come tutti, vivevo con disagio il mio io più profondo. Il buddismo mi ha aiutato. Ma anche la psicoterapia lo ha fatto, e i libri, gli in¬ contri. Non è il mezzo che conta ma la nostra disposizione. Sono convinto che nessun altro può curare la tua malattia se non tu stesso: ogni terapeuta è solo uno specchio». Si può guarire? «Guarire significa accettare la propria vulnerabilità e avere il coraggio di metterla nelle mani di quelli che ami, in un grande patto di totale fiducia. Non c'è altro». Come mai alterna periodi di grande lavoro a sparizioni? «E' il mio ritmo. Ho fatto tre film uno dietro l'altro, ora mi fermo. Voglio lavorare al mio progetto di un film sul "Barone rampante" di Calvino». Perché? «Calvino è fantasia. Ilo trasportalo la storia in America, quando il paese si ritagliava il suo spazio abbattendo le foreste: mi pare pefetto quel mondo per un uomo che sceglie di vivere su un albero». Simonetta Robiony Tra i suoi progetti un film sul «Barone Rampante» di Calvino Quì sopra Gere con Lena Olin nel film «Mr. Jones». Accanto a sinistra la moglie, la modella Cindy Crawford

Luoghi citati: America, Massachusetts, Roma, Tibet