«Tradito da Gardini» di Marco Tosatti

La maxi-tangente Enimont riciclata in Vaticano: tutto comincia con la Fondazione San Serafino La maxi-tangente Enimont riciclata in Vaticano: tutto comincia con la Fondazione San Serafino «Tradito da Gardini» De Bonis: allo Ior non ho deciso io ACITTA' DEL VATICANO LL'inizio ora partita come una cosa bella. Poi, se Cardini ha fatto quello che ha fatto, si ò servito di noi... che cosa c'entriamo? Nell'89 comunque ero già fuori. Non avevo proprio potere, non ò che potessi autorizzare alcunché». Monsignor Donato De Bonis è amareggiato. E' «Prelato» dell'Ordine di Malta, ma fino all'anno scorso, a marzo, era «il Prelato» dello Ior, L'Istituto per le Opere di Religione. E amico di Luigi Bisignani. Verso di lui ha ancora parole di elogio, per il «postino»: «Ha detto di avere un macigno, un peso sul petto perché involontariamente ha coinvolto il Vaticano. Perché all'inizio, effettivamente, era partita come una cosa bella». Per chi non lavora in Vaticano, o nelle immediate adiacenze (non geografiche), avere un conto allo Ior non è facile. E non lo era nemmeno qualche anno fa. I vantaggi: la banca vaticana pratica dei tassi di interesse attivo concorrenziali rispetto agli Istituti italiani. Sul frutto degli interessi, trattiene una percentuale, variabile; ma l'intestatario del conto risparmia il trenta per cento che lo Stato italiano si prende sul frutto dell'interesso annuo. E lo Ior come utilizza quei soldi? In opere di carità e di beneficenza, per statuto. Mons. De Bonis è amareggiato, perché i reporlages di questi giorni danno di lui un'immagine che non gli piace: «Quei commenti, su quella che è stata la mia vita allo Ior, una vita di bene sacerdotale!», si lamenta. Anche il caso San Serafino? «L'apertura di quelle fondazioni avveniva sempre nella speranza di far del bene - protesta monsignore -. E poi accadeva quando questi erano i signori del mondo, e non esisteva la parola tangente, non esisteva la parola Enimont, Montedison. Chi ne aveva mai sentito parlare, prima che venisse fuori sulla stampa? Non si è mai parlato di queste cose là dentro. Si pensava alla famiglia Ferruzzi...». E forse teme anche che in Vaticano ci si voglia servire di lui come di un capro espiatorio per salvare l'immagine del nuovo Ior. Era proprio quell'immagine che mons. De Bonis difendeva in un colloquio confidenziale del giugno 1989. «Esce di scena Marcinkus - ci disse - anche se continuerà a prestare assistenza giuridica. Il primo passo è stato compiuto, nella direzione giusta. Lo Ior è uscito fuori dal pelago del sin troppo propagandato affare Calvi-Ambrosiano, affidandolo a un prelato che è rimasto sempre estraneo a tutte quelle vicende ancora da chiari¬ re. Si può affermare che una pa- i gina è stata definitivamente voltata nella storia del Vaticano. Va privilegiandosi la vocazione al servizio - concluse - che travalica il dato semplicemente finanziario». E' la stessa posizione che rivendica adesso, anche - forse, ma lo lascia dire agli altri - contro tutti coloro che avrebbero interesse a presentarlo come il principale responsabile dentro le mura vaticane dell'operazione «San Serafino». «Sembra quasi, da come mi si rappresenta, che io sia uno che fa lo slalom fra i pericoli, mi si raffigura come un furbacchiotto che passa attraverso le cose. No, no, io avevo una funzione diversa, quella di dare un taglio ecclesiastico al banco». Dal giorno della sua ordinazione episcopale, e dal passaggio all'Ordine di Malta, il posto del «Prelato» all'Istituto per le Opere di Religione è vacante. «Ma il Prelato dall'89 non ha più firma, quindi non può autorizzare nulla. La sua è una funzione di raccordo fra i sovrintendenti e i cardinali, quindi è fuori, non può firmare nulla». Nell'89 il Papa decretò la riforma dello Ior, affidando la gestione operativa ai laici. Una commissione di cardinali assumeva una funzione di controllo, ma chi gestiva la banca erano i «sovrintendenti»: un presidente italiano, Angelo Caloja, ed esperti di varie nazionalità. E poi il direttore generale, Giovanni Bodio, ex direttore generale del Mediocredito Lombardo. Il «Prelato» aveva una funzione di cerniera, importante, anche perché era la memoria storica dell'Istituto. «E' stato testimone - ci disse, parlando di sé, nell'89 - di questi sette anni, ha visto gente convivere con l'incubo delle manette; ha dovuto tenere l'ufficio, i contatti con le grandi banche, fare da ambasciatore viaggiante, l'unico che si muoveva, anche per illustrare la nostra parte quando c'erano le famose sentenze. Un servizio alla Chiesa». Ma adesso sottolinea, e insiste, che dal momento della riforma in poi i suoi poteri sono stati molto limitati. «Nell'89 co- munque ero già fuori. Non è che potessi autorizzare alcunché. Potevo tutt'al più presentare qualcuno. Ma non potevo autorizzare niente. Non avevo proprio potere. Non solo non l'ho fatto, ma non potevo farlo». Quindi qualcun altro ha preso le decisioni operative, per la «Fondazione San Serafino». «Sono in perfetta buonafede. Tutto fu fatto secondo le regole, si sapeva che erano cose pulite. Di fronte a quei nomi, chi poteva sospettare qualcosa? Comunque io ho sempre e solo fatto il sacerdote. Il titolo di giornale più bello lo porto sempre in tasca: "Mons. De Bonis vescovo. Una vita per la carità". Ora, da come mi descrivono i giornali, i miei amici diranno: ammappa, questo monsignore. No, no, ho sempre fatto il prete». Forse si sente un po' tradito? «Aveva ragione Oscar Wilde: la tragedia dell'umanità cominciò quando l'uomo fece cadere dalla mano il sasso e impugnò una penna». Marco Tosatti «I Ferruzzi erano stimati, poi lui si è servito di noi» A destra, mons. Donato De Bonis ex Preiato dello Ior