Gabriele condottiero di carta

// Vate e i libri, storia d'un rapporto mistico In mostra alla Nazionale di Roma la biblioteca di D'Annunzio Gabriele condottiero di carta // Vate e i libri, storia d'un rapporto mistico ROMA M ELLA biblioteca, dai finem stroni aperti, entravano ■ zone vive di luce. Le file AjLI dei libri, a quell'irruzione insolita, rivivevano, gittavano anch'essi le loro note deboli dai curvi dossi tarlati. Era tutta una gamma di colori. Gli Ada Sanctorum gialleggiavano e biancicavano in una tinta di tonache domenicane». E' una novella giovanile, Favola Sentimentale di D'Annunzio. Nasce dunque molto presto questa sua immagine ricorrente del Libro come persona viva, formicolante e «sussurrosa»: voce racchiusa nel cristallino flaccone liberty d'una teca huysmanniana, E' appunto questo rapporto simbolico e quasi animista con la «carne», impellicciata di marocchino, dei Libri (la maiuscola non ò superflua) che vuol raccontare la suggestiva mostra / libri Segreti, aperta sino al 3 febbraio alla Biblioteca Nazionale di Roma, pensata da Annamaria Andreoli, che ha curato anche il bel volume De Luca, ricco di novità e documenti. Far rivivere il culto dannunziano di Frate Libro, fuoco segreto del suo vivere febbrile, più che inimitabile: «non pingue retaggio di ricchezza inerte ma nudo retaggio d'immortale spirito». Che gli suggerirà, nell'Atto di Donazione del Vittoriale agli Italiani, questa vivida immagine: «Qui non a impolverarsi ma a vivere sono collocati i miei libri di studio, in così grande numero e di tanto pregio che superano forse ogni altra biblioteca di ricercatore e di ritrovatore solitario». Ecco il suo ebbro orgoglio, appoggiato a cifre bugiarde e ad enfatiche smanie di primeggiare. «Montaigne nella sua famosa torre aveva una libreria di un migliaio di volumi. Io nel mio eremo ne ho una di circa settantacinquemila». Non importa la verità, che tocca una cifra gonfiata almeno del doppio: interessa questa sua esaltazione da rinascimentale Condottiero della Carta Stampata (di colui che riesce anche ad inventarsi un avo «principe degli stampatori», il «precursore cristiano Plato de Benedictis», pur di mondare quel suo umiliante cognome paterno di Rapagnetta). Non confessa, per esempio, che nella casa colonica sul lago di Garda, destinata a diventare il Sacrario del Vittoriale, ha ereditato la ricca biblioteca (almeno 7000 volumi) del Professor Thode, storico dell'arte tedesco costretto dalla guerra a fuggire, lasciando molte memorie, anche musicali, di Senta Von Bùlow, la figlia di Cosima Wagner. Né che il fido segretario Tom Antongini gli ha immolato la sua preziosa raccolta di antiqui volumi squisiti. Vero piuttosto che questo littorio Tempio al Genio Vivente, qual è il Vittoriale, «eremo» dove si radunano stratificati i «resti dei miei naufragi», vien concepito proprio come un enorme Libro (perfino il bagno sarà sarcasticamente titolato Bibliothecula Stercoraria), grandioso bacino in cui confluiscono le varie biblioteche-affluenti, specchi dei più differenti periodi di questa vita frammentata e gloriosa. Gloriosa anche nei debiti, se sfrontatamente il Vate, insolvente fuggiasco in terra di Francia, si vanta d'aver fatto «fremere di gelosia in Purgatorio la grand'ombra di Balzac», bancarottiere notorio. E i debiti hanno un ruolo non secondario, in questa storia, che inizia con la giovanile «smania della poesia», quando il distratto collegiale in visita a Bologna entra alla Libreria Zanichelli e compra le Odi Barbare di Carducci: «In quei giorni divorai ogni cosa con un'eccitazione strana e febbrile e mi sentii un altro». Davvero: senza libri D'Annunzio non sa esistere, altro che lavorare! Il suo genio di «operaio della parola», il suo demone del «capolavorare» deve tutto alla provocazione, materialmente invischiante, di vocabolari e di classici: la sua è una poesia germinale, che vive di carta e di linfe grafiche. «Niun d'essi viveva intiero, ma in tutti era un punto sensibile che sapevo cercare e penetrare... Allora, come gli asceti seppero ottenere le stimmate, quel punto sensibile si trasponeva in me». Se ne rende conto, dopo qual- che mese di ebbrezza mondana, nel suo eremo di Arcachon, sperduto «nell'estremo occidente, sul dosso spinoso di una duna oceanica», dove recita il suo esilio spartano, alla Victor Hugo. «Penso sempre ai miei libri. Soffro della loro mancanza. Ne ho sete come dell'acqua pura. Sarei felice se potessi averli qui, dove gli scaffali sono pronti a riceverli ordinati». Una mancanza che brucia, e quell'efficace immagine dei protesi scaffali e vedovi: «Forse la fame dello spirito, per certuni, è più tormentosa che quella carnale». All'inizio manifesta il consueto sprezzo, contro quel marasma di «chieditori» che lo inseguono, contro quel «branco di scimmie che calpestò e distrusse quel che forse, o prima o poi, avrei distrutto io medesimo in un'ora, per far largo intorno al mio pensiero impaziente». L'asta non arreca troppo sollievo ai debiti: la Capponcina è profanata, «denudata ed orri¬ bile», non rimane che la decrepita custode Anastasia, come una parca da nenia di Palazzeschi. D'Annunzio s'indigna con Ojetti che «recenscisce» l'asta indecorosa, girano perfino un film; ma quando intuisce che anche i libri più preziosi (e le «lettere intime» alle voraci sue donne) sono in pericolo, quando dispera di «recuperare gli utensili dell'arte mia» (vorrebbe coinvolgere il diritto internazionale, contro questo abominio, quest'«ultima infamia») non soltanto s'indigna, ma davvero si allarma. Si umilia, lagrima per lettera, invoca. «Sono disperato. Sarei contento di sottopormi alla più dura schiavitù per salvare i miei libri prediletti. Mi sembra ora che la devastazione sia fatta non più alla mia casa ma nel mio spirito (...). Con amore costante ho raccolto i testi di lingua che erano il mio pane cotidiano. Sarei più misero di un naufrago, senza di essi, più infelice di un mutilato». E' godibilissimo il rapporto che s'instaura con il direttore del Corriere della Sera, Alhertini, che ben conosce i vizi del suo collaboratore nababbo, cui ha permesso, con lauti compensi, di superare il periodo d'esilio, ma cui vorrebbe salvare anche, con il contributo del Banco di Roma, la sospirata biblioteca. Inutile redarguirlo: anche se recita la figura del Poverello (così si firma) continua a guazzare tra carte filigranate, bibelots ricercatissimi, rilegature di marocchino: «Fin dalla primissima giovinezza ho maledetto la nera ingiustizia della sorte, che, dandomi le inclinazioni ed i gusti di un Principe del Rinascimento...». Così si infuria se il fedele Tenneronì, ad un tempo Pamphilus e «Scartoffista», vittima sacrificale di questa smania lontana di libri (corre tra le varie biblioteche, fruga le spoglie case di D'Annunzio alla ricerca di libri che gli ha imprestato, ansima tra telegrammi, spedizioni continue ed insulti, «sei un gran fesso...»), s'infuria il Vate, se di Vasari riceve soltanto un'awilente edizionucola economica di Sonzogno! Così: Bibliothecura Gallica chiamerà con amoroso scherno la sua umile riserva di volgari doppioni, ad Arcachon. Da un lato, è vero, D'Annunzio ha bisogno del profumo decadente, esteriore dei libri sofisticati, «impressi nel modo giuntino, che è un modo musicale», «la pagina che sotto il dito volgente crepita o garrisce», un «elzevir di Amsterodamo che mi donò Ghisola ieri», cioè la succuba Duse. Un flatus vocis armonioso: le mani troncate, come in un Beato Angelico, carezzano dal bouquiniste i dorsi dei volumi, e «hanno un lungo fremito, quasi voluttuoso, simile a quello dell'amante che sta per toccare la nudità amata». Ma è vero anche che del libro, come viscera profonda, egli ha una venerazione assoluta, magari dell'umile vocabolario francescano, «placida bestia da soma», che lo aiuta a generare: «tanto familiari e coingiunti siamo, io e il vocabolario, perché siamo poveri amendui». E basterebbero le erudite schede di consultazione, alle varie Marucelliane o Archiginnasi: Nietzsche, Whitman, Wagner. Riempiti di annotazioni, farciti di stelle alpine e quadrifogli, quei suoi libri ancora respirano, ansimanti. Talvolta nel silenzio "nottivago" della sua Stanza del Lebbroso, per timore che l'ispirazione svanisca dai «primi fogli rinvenuti nel libro della mente che vien meno», il febbrile Bibliomante azzanna un volume qualsiasi e lo cosparge di segni, di versi, indifferente a quello che soggiace. «Talora l'appunto marginale non sa frenarsi» scrive l'Andreoli, «e sfregia le pagine con un'indebita sovrapposizione a palinsesto». Persino Padre Dante viene obliterato dalla furia smaniosa del Cercatore, innamorato della propria voce. Marco Vallerà Manie enfatiche cifre bugiarde «Io nel mio eremo ho circa settantacinquemila volumi» Gabriele D'Annunzio, a destra, riceveva spesso libri in dono dalla Duse, a sinistra, Sotto, il Pascoli

Luoghi citati: Arcachon, Bologna, Francia, Roma