«Portavo miliardi, chissà perché»

«Portavo miliardi, chissà perché» IL POSTINO AL DI LA' DEL TEVERE «Portavo miliardi, chissà perché» La confessione del pony express delle tangenti AMILANO LLA fine, questo Gigi Bisignani faceva un po' pena. Senza esagerare: è pur sempre uno che per i suoi servizietti (come fare il pony express di Gardini con lo lor vaticano portando pacchetti di cct al di là del Tevere) si era beccato una prebenda da quattro miliardoni che per un giovanotto di belle speranze non sono pochi. Faceva pena perché appariva in preda all'angoscia nel suo vestito grigio, allegra camicia a quadretti azzurri e cravatta composta - indossati in galera, dove si trova - palesemente sommerso da un giustificato senso di colpa. E più lui cercava di aprire spiragli sui tormenti della sua anima, più lo sbrigativo Di Pietro glieli chiudeva e passava ad altro. E man mano che l'interrogatorio procedeva, Bisignani, questo quarantenne di capello un po' lunghetto - tratto distintivo generazionale - annichiliva, ammutoliva, restava lì come un baccalà perché non riusciva più a capire in che modo potesse più venire incontro ai desideri del procuratore, che seguiva i suoi schemi feroci, precisi, ma talvolta per eccesso di meticolosità un po' sballati. E questo è stato il primo personaggio notevole della seduta di ieri al processo Cusani. Il secondo personaggio, muto, è Cusani stesso che da convitato di pietra di Di Pietro è diventato un membro permanente effettivo del club che ha sede in questa auletta in cui si svolge il processo di fine millennio. Cusani non sorride mai. Sembra un serpentello con la testa vibratile, elegante e magro e attentissimo, sussurrante nell'orecchio di Giuliano Spazzali, il quale è sempre più padrone della scena e processualmente più forte, almeno da quando ha consolidato un'alleanza psicologica con il presidente Giuseppe Tarantola che è in aperta ribellione nei confronti del prepotente procuratore di ferro. E due parole anche su Di Pietro, in questa fase. Ha reagito, uomo sano di mente e di corpo, autentico atleta del lavoro, alle proteste e ai quasi-dispetti di Tarantola (che dà regolarmente ragione a Spazzali e ieri lo ha fatto nuovamente negando una richiesta di confronto), schiacciando i suoi colleghi antagonisti con il suo stakanovismo. Ecco come. Martedi Di Pietro aveva prodotto gli esiti del suo viaggio in Lussemburgo e, come usa fare, li ha sfornati al processo come dati di fatto belli e pron- ti. Spazzali è insorto gridando alla lesa maestà della forma: noi non c'eravamo. Tarantola dà ragione a Spazzali e dice a Di Pietro che lui la sua rogatoria se la può anche portare a casa. Di Pietro incassa, ma diventa color argilla. Risulato: ieri Di Pietro informa lorsignori, presidente e difensore, che le nuove rogatorie per interrogare testimoni a Montecarlo e in Lussemburgo, sono state già da lui predisposte anche a nome loro. Poco manca che tiri fuori i biglietti di viaggio e le prenotazioni alberghiere. Tarantola ha un moto di sarcasmo. Di fronte alla solerzia dei magistrati stranieri che in genere a lui fanno aspettare mesi, mugugna: «Ma che carini, come sono diventati gentili». Di Pietro fa la faccia del bravo bambino davanti alla corte, ma quando si china per confabulare con un suo assistente fa un gesto che inequivocabilmente significa: «Tiè, beccatevi questa». Nel senso di rogatoria. Tarantola soffre, ma incassa da gran signore. Di Pietro lo tartassa di domande per sapere se allora va bene, siamo d'accordo, confermiamo. Tarantola provoca l'ilarità di tutti dicendo: «Un momento. Mi faccia ripren¬ dere dallo choc». Alla fine si spostano date, si consultano agende, ma è fatta: mi avete respinto un mio interrogatorio già bell'e pronto, sottintende Di Pietro. Bene, e adesso venite a rompervi le scatole con me in giro per l'Europa. Comunque salgono le azioni di scena del presidente Tarantola, che si rivela di spirito sottile e di battuta pronta, sarcastico, amaro, buon incassatore. Chi invece ieri faceva veramente pena era la povera Tommaselli, già segretaria incarcerata di Bettino Craxi. Poveretta. Dimessa, grassoccia, impaurita, con i suoi gioiellini, il suo Mon¬ tgomery blu d'antiquariato, balbettava e sembrava una persona finta. Al punto che lo stesso Di Pietro, quell'implacabile, ne ha avuto pietà e l'ha consegnata a Tarantola: «Presidente, le faccia lei le altre domande perché io non me la sento». In effetti la Tommaselli racconta la vita finanziaria di quello studio in piazza Duomo 19 in un modo che magari sarà anche veritiero, ma egualmente incredibile: i soldi che arrivano a pacchi, Craxi che si vuota le tasche sulla sua scrivania e soltanto di denaro contante, banconote toccate dalla sua mano e non assegni, rovescia un salvadanaio di lire otto miliardi e 975 milioni nel giro di otto anni, cioè dal 1985 al 1993. Cioè più di un miliardo l'anno. E poi la sagra dei conti correnti, tutti intestati alla signora segretaria e al suo consorte. Un balletto di cifre, di milioni che diventano miliardi, di spese di studio e incassi di contribuzioni, spese di partito e altre che non si sa che cosa siano. L'aspetto incredibile, paradossale, è che di tanto in tanto parrebbe che la segretaria mettesse lei stessa a disposizione cifre di rilievo per il suo capo, salvo vedersele restituire nel giro di qualche giorno. Il presidente Tarantola le ha chiesto quanto guadagnasse di stipendio. Risposta: «Tre milioni e mezzo». Il presidente le chiede anche quanto guadagna il marito, funzionario bancario, e si scopre che guadagna altrettanto. «Neanche tanto», commenta Tarantola. E tutti ridono, perché il contesto è tale che le battute assumono qui un valore comico che svanisce appena fuori dell'aula, come succedeva a scuola. Comunque, Cusani ieri è uscito bene dalla giornata: Bisignani ha parlato bene di lui e non come di un trafficone, e la Tommaselli ha detto che Cusani veniva a piazza Duomo, caso rarissimo fra i visitatori, non per portare anche lui il suo pacchetto di banconote, ma proprio per parlare di politica con Craxi. E' stata comunque la giornata di Luigi Bisignani: un giornalista dell'Ansa che incontrò Gardini nel corso dei Mondiali del 90 e che vide trasformare quell'incontro nella svolta della sua vita. Una svolta in fin dei conti non fortunatissima, anche se quattromila milioni gli sono pur sempre rimasti come premio di con- I solazione. Bisignani era timoroso, il pomo d'Adamo gli andava su e giù e aveva l'aria spaesata. E' entra- ! to accompagnato dai carabinieri perché è detenuto nel carcere di ' Opera e aveva la barba di due giorni. Ha raccontato di essere estraneo alla vicenda Enimont per la buona ragione che ai tempi della crisi lui era in America per una operazione agli occhi. Ma Gardini si invaghì di lui, ne fece il suo inviato speciale davanti alle porte più difficili e gli chiese se poteva schiudere quella dello lor, la banca vaticana. E'seguito un racconto divertente: le stanzette degli impiegati vaticani, lui che si fa introdurre dal fido manisgnor De Bonis che aveva già battezzato i suoi figli, le pratiche, i santissimi moduli. Gigi Bisignani ha raccontato in che modo introducesse Gardini e Cusani in quelle segrete stanze e come lo lor accettasse di trattare i titoli che sarebbero stati consegnati, per trasformarli in contante e versarli su conti esteri. L'ex giornalista dell'Ansa è stato convincente: ha spiegato che i soldi che portava in Vaticano (in plichi che gli venivano consegnati da Cusani o da un suo sottoposto) era sicuro che appartenessero personalmente a Raul Gardini e alla sua famiglia. Mai ebbe sentore del fatto che si trattasse di tangenti o di denaro sporco da riciclare. Ripeto: è stato convincente e chi rivedrà in televisione questo interrogatorio potrà rendersene conto. Ma l'impressione è che Gardini, deciso a rifarsi una vita all'estero dopo aver gridato patria ingrata non avrai le mie ossa, trasferisse un proprio patrimonio fuori dei confini. Non è detto che così fosse, anche perché non si capisce bene il motivo per cui non avesse scelto una strada più semplice e rapida. Però è possibile che Bisignani fosse in buona fede e che Sergio Cusani si limitasse ad eseguire le pure e semplice istruzioni di Gardini, ignorando eventuali retroscena sulla provenienza di quel denaro. Di Pietro non è contento, vorrebbe che Bisignani dicesse il contrario, e cioè che aveva quanto meno capito di che si trattasse. Ma il giornalista è irremovibile: questo è quel che sa, non una parola di più. Ed ecco che Di Pietro si lancia in una battuta dialettale: «Nullu sacciu e nullu vedu?». Bisignani è sconcertato, non capisce. Poi spiega che quel che ha visto, ha visto; ma nulla di più. Altra è la storia dei soldi che Bisignani portava ai politici e in paricolare a Paolo Cirino Pomicino, l'uomo che veniva sempre disturbato alle sette di mattina da seccatori che bussavano per consegnargli miliardi di regalie. In questo caso Bisignani ammette: i soldi e i cct non li ha visti, ma li ha intuiti. Ed erano tangenti, unzioni, o come le si voglia chiamare. Però è incerto sulle date, incerto sul numero di volte, balbettante. E il presidente Tarantola, con la sua espressione all'inglese scuote la testa e commenta: «Bah, Cirino Pomicino era stato più preciso». E Di Pietro: «Grazie tante: lui riceveva, per forza ricordava meglio». Paolo Guzzanti lei, signor Panzavolta, ama il suo lavoro e si vede. Ma anch'io amvato a una certa età amo molto il mio. E così, per fare un esempio, resto convinto che i 620 milioni del conto Gabbietta, lei non li ha dati tanto per darli. Antonio Di Pietro

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