L'ultimo giorno della I Repubblica

L'epitaffio alla legislatura del premier in un'aula rassegnata e carica di rancori: tutta colpa dei giudici L'ORA DELL'ADDIO L'epitaffio alla legislatura del premier in un'aula rassegnata e carica di rancori: tutta colpa dei giudici L'ultimo giorno della I Repubblica II Transatlantico come il braccio della morte PROMA ALLIDO, stanco, abbandonato su uno dei sonnolenti divani democristiani del Transatlantico, quelli che tanta tela hanno visto tessere e sfilare, Guido Bodrato, il mite Bodrato della vecchia «area Zac», d'improvviso si scuote: «Siete venuti per il funerale della Prima Repubblica, o a raccontare l'ennesima alba del Nuovo?». Nell'ultimo «gran giorno» della legislatura, mentre una folla inquieta attraversa il corridoio dei Passi Perduti, Bodrato ringhia. E se anche lui una specie di istituzione, un appuntamento fisso per i cronisti, che si avviavano a quotidiane, inutili, ma irrinunciabili chiacchierate, dicendo «vado ad "abbodratarmi"» - se anche lui si è offeso, è davvero segno che qualcosa si è rotto. Per la prima volta, infatti, la fine della commedia - come la chiamò, in un'altra vigilia di scioglimento anticipato delle Camere, Martinazzoli - non coincide con i saluti, le promesse, gli arrivederci che gli onorevoli si scambiavano graziosamente, con quel senso di sicurezza che solo la continuità del sistema poteva dargli. All'ottanta per cento sapevano di poter contare sulla rielezione, per gli altri c'era una rete di sicurezza, un posto di sottogoverno, la speranza di Strasburgo. Anche se per tutti il gioco vero era a Montecitorio, al Senato si perdevano posizioni, e al Parlamento europeo cominciava la pensione, il lentissimo inizio di una fine infinita, che a Dio piacendo non arrivava mai. Oggi invece, nel giorno dell'addio, con la metà o i due terzi dei parlamentari che stanno per essere mandati a casa per sempre, l'aria che si respira è quella del braccio della morte. I condannati aspettano l'esecuzione disperati, depressi o dignitosi, fumando l'ultima sigaretta, senza aspettarsi più una grazia che non verrà, ma con la rabbia di chi si sente, fino all'ultimo, vittima di un'ingiustizia. Una congiura di giudici, giornali e televisione, come spiega, pieno d'amarezza, Bodrato: «Tutti insieme hanno rappresentato al mondo e all'opinione pubblica la politica italiana come un insieme di furti, tangenti e malaffare, senza distinguere, senza indicare altra via di salvezza che non il "Nuovo". E al centro del "Nuovo", guarda un po'!, un Governatore che da quarant'anni fa parte della Nomenklatura». Oppure, come sostiene rassegnato l'ex ministro Calogero Mannino, «un complotto inter- nazionale per fermare un Paese in ascesa come l'Italia. L'hanno capito tutti, nessuno è stato capace di far qualcosa per fermarlo». O una strana maledizione. «Se parli di cose serie, dei problemi della gente, nessuno ti sta a sentire - si lamenta il ministro della Protezione civile Vito Riggio -. Se dici "quello è un ladro", invece, si voltano tutti». Naturalmente, nessuno ha voglia di prendere in considerazione seriamente la questione di una classe politica delegittimata dalle malversazioni, dalla cattiva amministrazione, dai reati commessi con un fare impunito che, come s'è scoperto, era diventato l'emblema del regime. Per tutti, anche per chi accusa sempre gli altri di essere ladri, Tangentopoli è stata dilatata, usata ad arte, finalizzata a una specie di rivoluzione che non si capisce, alla fine, chi farà vincere. Forse che non si sapeva che la politica aveva i suoi costi? E perché devono pagare tutti se Craxi, Forlani e Andreotti hanno esagerato? E' la prima volta che si scopre l'esistenza delle tangenti? No, non è la prima volta. C'è una storia infinita di scandali grandi e piccoli passati alla storia senza intaccare il sistema. La Camera, già quattordici anni fa, trovò il coraggio di discutere, per poi archiviare, il caso rimasto famoso di Evangelisti e dello slogan, «A' Fra' che te serve», che i Caltagirone pronunciavano prima di metter mano al libretto degli assegni. Disse Leonardo Sciascia, l'onorevole Sciascia, in quell'occasione, con l'ironia che anco¬ ra oggi alcuni stentano a capire: «Ho ricordato quel libro di Henner Hess sulla mafia, in cui si sostiene che il mafioso non sa di essere mafioso, partecipa a una condizione che è l'unica che conosce. Non c'è da scandalizzarsi, dopo trent'anni. per quello che ha detto l'onorevole Evangelisti. Sono cose risapute, che si ripetono, che non producono traumi e non fanno molta impressione; del resto, anche questo dibattito è un'ennesima ipocrisia o mistificazione di fronte al po¬ polo italiano, tranne che per poche voci». Si può chiedere al condannato di condividere la sentenza che pure deve accettare? Ammettiamolo, è difficile: ed ecco perché, mentre Ciampi in aula saluta la fine di una certa stagione, di un certo modo d'essere, e forse della politica italiana, tutt'intorno è un fiorire di conciliaboli, tradimenti, mosse a sorpresa. L'epitaffio del Governatore, in aula, è lapidario. Ciampi parla di una politica ridotta al suo «compito essenziale», mai più messa in condizione di interferire con «interessi di parte» sulle «valutazioni tecniche». La politica in cui due più due fa quattro e non, come dicono con orrore i neo-adepti del partito di Berlusconi, sette o nove. Nel silenzio dell'aula solo il missino Caradonna si alza e protesta. Dall'alto, da una tribuna, un cronista distratto che forse lo ha scambiato col vecchio Tedeschi, chiede agli altri: «Ma non era morto?». Poi interviene Napolitano a rimettere ordine, ma è l'unico incidente. Fuori invece, per niente rassegnati, gli ultimi contrari allo scioglimento danno vita a un gran valzer di incontri, scambi di documenti, telefonate, riunioni di corrente. Una trottola impazzita ma inutile, che fa contrasto con l'attesa tranquilla, ostentata, perfino annoiata dei vincitori. Occhetto può addirittura concedersi il lusso di definire il dibattito «del tutto inutile», tanto sa già che si andrà a votare il 27 marzo. I professori e i funzionari di Palazzo Chigi che accompagnano il presidente del Consi¬ glio alla Camera sono cortesi, rispondono a tutte le domande, e lasciano intendere che l'accordo fra Ciampi e Scalfaro è cosa fatta: e alla fine il governo potrebbe pure non dimettersi, e restare in carica, anche a Camere sciolte. Dopo un'ora di interruzione, quando Pannella si avvicina al microfono, la rivolta continua ma si capisce che non ha sbocchi. Uno dopo l'altro, senza mai rassegnarsi, Marco cerca ad alta voce alleati che non gli rispondono o hanno preso le distanze, da Segni a Martinazzoli, allo stesso Ciampi. Poi, la parola passa a D'Alema, che interviene quasi come un esecutore testamentario. Tira fuori un foglietto da una tasca e legge i dati delle presenze della seduta del mattino: come si fa a dar credito a deputati che dicono di voler continuare a lavorare ma poi in aula sono assenti al punto da far mancare il numero legale? Così, anche il giorno degli addii volge alla fine. In un angolo un gruppo di giornalisti ormai discute di amenità, se alla fine il tramonto della Prima Repubblica non si porterà dietro legittimamente anche un'intera generazione di cronisti, con tutte le manie, le specializzazioni e il rimpianto che di nascosto si confessano per questa strana scienza che va in fumo. C'è chi sostiene che la politica del Nuovo e Vecchio non avrà più bisogno né di interpreti né di alchimisti. Chi è convinto che la politica «ridotta all'essenziale» non durerà a lungo, chi ci spera e chi dice meno male, era ora. Si avvicina Virginio Rognoni, l'ex ministro dell'Interno degli anni del terrorismo. E' (o si finge) entusiasta della nuova stagione, ha fatto sette campagne elettorali a Milano in un collegio con sette milioni di elettori, non gli sembra vero di combattere testa a testa davanti a centomila cittadini con l'avversario leghista. «Tanto si sfoga - con questa legge elettorale so già che perderò. Ma voglio perdere con onore». Sorrisini di circostanza, qualche frase smozzicata se non altro per cortesia verso l'interlocutore. Poi Rognoni saluta. Ma avviandosi verso l'uscita: «Mi hanno detto - sorride - che domani parla De Mita. Se proprio vuole... Purché non venga a dirci nuovamente che la strada giusta sono le riforme istituzionali!». Marcello Sorgi Bodrato: «Siete venuti per il funerale del sistema o per l'ennesima alba del Nuovo?» Mario Segni: non intendo presiedere un «governo elettorale» Mannino: Complotto internazionale per fermare un Paese in ascesa Rognoni: So già che perderò. Ma voglio perdere con onore A sinistra, Carlo Azeglio Ciampi parla dal banco del governo A destra la buvette di Montecitorio Sotto, Massimo DAIema e Virginio Rognoni

Luoghi citati: Caltagirone, Italia, Milano, Strasburgo