«lo, postino delle mazzette»

«lo, postino delle manette» «lo, postino delle manette» La «lezione» del gran ribaldo di Tangentopoli ■:-: . ■ .:.:::■■ \\: .':":'.7.-::.'. : ::" ■::.::;:.":^: £: S ■ ' '. :: • :• ' '•;••::•: .\: •• • '- ':WmM IL CASSIERE DEL GAROFANO IMILANO MPRESSIONANTE. Silvano Larini, visto e udito dal vivo somiglia tale e quale alla caricatura che ne aveva fatto il comico Masciarelli di «Avanzi»: abbronzato in maniera uniformemente odiosa, con quell'erre moscia, quella spocchia, quel sopracciò da signore annoialo dopo una overdose di villeggiatura tropicale e costretto a subire gli aliti agliacei di un club di giacobini di campagna, ha affrontalo ieri con disagio la volgare vicenda delle tangenti socialiste milanesi, ma soltanto sollo la pudica dizione di «costo della politica» e dichiarando bene che lui non toccava mai i denari, non li contava anche se li recapitava a pacchi, meno che mai li reclamava perché il denaro, come i calzini corti, gli fa senso. Lui era, nel suo autoritratto processuale, l'ingegnere e il supervisore astrale di un sistema di dighe, bacini di drenaggio, rubinetti, che era previsto funzionassero da soli, assicurando con naturale costanza «il flusso». Difficile includerlo - nella grande saga di questo processo dantesco di fine millennio - fra i dannati che suscitano sdegno ma anche comprensione: quel genere di comprensione rabbiosa, sfrontata e sanguigna che aveva, per intendersi, saputo chiamare su di sé Bettino Craxi, il cinghialone ferito che mordeva e ringhiava incurante delle picche. Larini è un altro genere d'uomo e non c'è dubbio che a qualcuno possa piacere. Fisicamente è un bell'uomo, taglia fortissima, ma da atleta in decadenza: capoccione mussoliniano, cranio pelato ma imparruccato dal sole, vestito di blu, camicia colorata: a suo modo, come dicono gli adolescenti, un fico. E sembra fatto apposta per l'isola di Cavallo in Corsica, sua magione in cui vanamente lo cercammo in un labirinto di casematte trincerate e miliardarie. Prima di sedere sulla sedia elettrica dei testimoni alla gogna (ma ha rifiutato la telecamera) si è lasciato stringere dai giornalisti contro una parete e ci ha voluto a tutti i costi garantire che il pasto di mezzogiorno va chiamato colazione e non pranzo e che la parola cena è espressione puramente milanese che serve a indicare soltanto quel cibo che si consuma «dopo la Scala». Sì, ammette annoiato, portava pacchi di grana a Craxi («facevo il postino dei pacchetti») e al psi, ma con umiltà da postino. No, quegli involucri li depositava a piazza Duomo ma non ne ha mai scartato uno. Per carità, non ha mai trattato con nessun industriale, limitandosi a «servire il sistema», che sarebbe la fase finale di ciò che i maoisti chiamavano «servire il popolo». Guadagnarci lui? Ma lei scherza, dottor Di Pietro: ci ha rimesso. Soltanto per «proteggere il conto protezione» avrà tirato fuori, di tasca sua, non meno di settecento milioni. Con quale faccia gli chiedete se poi lui, al momento dell'incasso della tangentona, ha sfilato una miliardessa tutta per sé? Era un puro e semplice rimborso spese. Chiese a Balzamo: posso trattenere un miliardo? E quello: ma figurati, fra di noi... Del resto non faceva che riprendersi il suo. Ma che lui intascasse la sua quota di tangente Enimont, questa signori giudici è assoluta bugia: di quella roba non sa nulla. Ironizza il presidente Tarantola: «E per puro caso lei riprende quei soldi giusto dieci anni dopo, guarda caso proprio mentre si incassa la tangente». Larini arrotando la erre, levando gli occhi al soffitto e con un sorriso da san Sebastiano: «E' drammatico, lo so, ma è così». E Tarantola: «E' drammatico riuscire a crederlo». Di Pietro lo tratta con rispetto e con dispetto, ma anche con vampe di disprezzo: «E mi dica, anche lei nel 1956 portava i calzoni alla zuava e scopriva che i partiti si finanziavano illecitamente?». Battuta che contiene una citazione craxiana. Larini è sbrigativo: tutto il sistema pubblico era al servizio dei partiti e dice di aver sentito in anni lontani De Mita teorizzare questa tesi parlando dell'Enel: così fan tutti e così han sempre fatto tutti. Di Pietro sorride diabolico: «Questa non la sapevo». E poi: «Cerchiamo di andare subito al sodo della questione». E la «questione» è l'intero cursus honorum di un grand commis personale di un Craxi che a Milano sembra un Caudillo spagnolo. Larini sa come si fa, tiene a lezione Cagliari, cerca di liberarsi dell'amaro calice della Metropolitana milanese, si adatta per spirito di puro servizio a recapitare la sporta della spesa in banconote, certifica ancora una volta che «la politica costa». Sul «costo della politica» Di Pietro interviene: «Tutti parlano del costo della politica, ma non dicono nulla del costo proprio: sarà arrivata qualcosa in tasca anche a lei, o no?». Con disgusto, di fronte a un argomento tanto volgare, Larini dà a Di Pietro una lezione di vita: tangenti io? Ma caro lei, io sono un professionista, un fior di professio¬ nista: con chi crede di parlare. Il sostituto procuratore, uomo provinciale abituato ai fichi secchi obietta che si tratta di parcelle da un miliardo, mica bruscolini. Silvano con la faccia d'abbronzatura lo fulmina: «E lei si meraviglia? Ma di che cosa si meraviglia? Un miliardo è la tariffa normale di un professionista milanese di livello». Naturalmente è Di Pietro che tritura Larini, ma nella rappresentazione scenica il procuratore accetta di svolgere un ruolo fintamente subalterno, quasi da spalla. E Larini interpreta il ruolo di chi sa come si sta al mondo: «Ma il meccanismo lei lo conosce meglio di me...», gli dice. Perché annoiarci? «Il sistema di affari Eni ha biso¬ gno di uno sponsor, lo sponsor poi decide a chi dare l'appalto e svolge il suo ruolo di intermediatore di alto livello». Sembra che si parli di caste indù, o della società ieratica egiziana. Larini parla bene, da uomo colto e forbito, un po' snob, quasi sbadiglia sugli understatement e racconta che alla fine questo Craxi di cui era tanto amico, gli stava poi francamente sulle scatole. Sentimento che Craxi ci disse di ricambiare con altrettanto e maggiore disprezzo, quando lo incontrammo in una piovosa domenica a piazza Navona. Ma mentre Craxi parlando di Larini disse che era un miserabile, Larini dice: «Il mio rapporto con Craxi andò sbiadendo, al punto che sul finire della presidenza Reviglio io andai a dirgli...». Sbiadire: è un verbo che ama. Quando finiva a coltellate, qualcosa andava sbiadendo. Chiama in causa Reviglio e lo accomuna agli altri maneggioni. Parla di Cagliari come di un minus habens: «Di fatto io ero il consigliere personale di Cagliari e gli avevo vietato di parlare con i politici». E perché mai? Si informa Di Pietro. «Perché spiega - Cagliari era un bravo tecnico ma non capiva nulla di politica». Ed ecco che sotto le sue cure il puerile Cagliari, che era inizialmente favorevole alla privatizzazione della chimica nelle mani di Gardini, cambia idea, si fa guidare, si fa docile, approda alla tesi secondo cui ad ogni costo (ad un costo effettivamente da amatori) il «pubblico» deve prevalere sul «privato». Certo, ammette: «Anche per poter garantire ai politici il flusso». E quando parla di flusso, con immagine di fisica idraulica, intende l'idrovora del quattrini destinati al partito per moto naturale della discesa delle acque. Ammette, ma soltanto perché incalzato, che «L'Enimont fu la gallina dalle uova d'oro». Però aggiunge con eleganza: «Ma non fu soltanto questo». Maestro dell'eufemismo, parla dell'«incidente» di cui fu vittima il senatore Natali, il mitico amministratore socialista milanese inventore e programmatore del sistema tangentizio. Di Pietro chiede di quale incidente si tratti e si scopre che non fu uno scontro in autostrada, ma dell'arresto. Di Pietro vuol sapere se, insomma, Craxi fosse o no a conoscenza nel dettaglio dei recapiti impacchettati e delle diverse tranches. Larini su questo punto regge la versione del suo vecchio segretario: «Craxi sapeva come era fatto il meccanismo e si aspettava che dal meccanismo scaturissero le risorse finanziarie del partito: a me affidò il ruolo di intermediatore per quanto riguardava i contributi dell'Eni ai partiti». Quanto al resto, par di capire, anche Craxi non voleva conoscere dettagli scabrosi, forse neppure come erano fatti i sei miliardi che Larini dice di avergli portato di persona. «E dove glieli ha portati?», gli chiede il pm che adora girare il coltello nella piaga. E Larini: «A piazza Duomo». Di Pietro, chiamando la risata del pubblico: «E dove esattamente? Sul sagrato?». Quando Di Pietro chiama le plebi all'applauso con le sue battutacce popolari, il presidente Tarantola sembra cader preda di malori di rabbia che potrebbero portarlo alla gastrite e all'ulcera. Fra Di Pietro e Tarantola ormai si può dire che non corra buon sangue: il presidente ha sempre più l'aria dell'ex bambino gracile della squadra di rugby che le prendeva sempre e che adesso mena pugni sul naso. E per far dispetto a Di Pietro dà ragione al bravissimo avvocato Spazzali, ogni volta che può. Paolo Cazzanti «Portavo i pacchi in piazza Duomo Ma alla fine Bettino mi stava antipatico» Sì, mi ripresi il mio miliardo ai tempi della maxitangente, ma quelli erano soldi miei: è drammalico, ma è COSÌ. Silvano larini «Le assicuro che è molto più drammatico riuscire a crederlo". Presidente Giuseppe Tarantola A sinistra Silvano Larini e, qui sopra, Sergio Cusani

Luoghi citati: Cagliari, Corsica, Milano