Le foto rubate di Cartier-Bresson

«Ma preferisco la pittura all'obiettivo» Roma: alla Fondazione Memmo gli «scatti» più efficaci di un trattato di storia Le foto rubate di Cartier-Bresson «Ma preferisco la pittura all'obiettivo» c fi I ROMA " E' qualcosa che rende inconfondibile una fotografia di Cartier-Bresson: un sentimento immediato, irrinunciabile d'infallibilità geo metrica. Come se quell'immagine perfetta non potesse spostarsi, «forare» nemmeno di un millimetro. Eppure è un senso della geometria che non si fa mai rigido, irrimediabile, astratto: la sua è la geometria pascaliana del cuore, una geometria sentimentale che avvolge le cose di unapietas sconfinata, che assolve - nel raggiungimento imperituro di un'«istantanea» perfettamente classica - ogni sospetto di furtiva intrusione dello sguardo. E' emozionante vederne tante raccolte insieme, di fotografie, alla romana Fondazione Memmo, così come sfogliare l'ancor più ricco volume Alinari, dove il nostro sguardo può voluttuosamente perimetrare e pascolare dentro il miracolo momentaneo di quella sua prensile visualità. Ma imperiosamente ogni fotografia esige un occhio diverso, e rompe quell'incantesimo generico e plurale: ad ognuna d'essa bisogna prestare un'attenzione quasi religiosa, buddista, se vogliamo concordare con la lettura del poeta Yves Bonnefoy, che parla addirittura di satori, di raggiungimento di una pienezza vuota, evocando la tecnica zen del tiro all'arco. «Ciò gli consentirà di tirare ad occhi chiusi e di centrare sempre, pur tuttavia, il bersaglio». E' l'esattezza fulminante, medianica, dell'accadimento casuale catturato da un demone bonario, generoso. Come avrà fatto mai Cartier-Bresson - ci si chiede - ad esser miracolosamente (ma non mai astutamente, «commercialmente») proprio lì, nell'istante fatidico, mentre Giacometti attraversa la strada sotto la pioggia e fa capannuccia del proprio impermeabile per non bagnarsi; ma di più, mentre la Storia si coagula in un momento decisivo, mentre Gandhi va alla cremazione, mentre il Kuomintang tira letteralmente le cuoia tra l'addensarsi minaccioso delle folle, mentre una ex deportata del campo di concentramento di Dessau riconosce un'informatrice della Gestapo: quel contrappunto bestiale di sguardi, di ire e di paure, scrive un trattatello storico molto più credibile di tanti saggi eruditi? Eppure la Storia sembra quasi non esistere per lui, meglio, è Storia anche quello scatto improvviso, incontenibile di gioia d'esistere d'un ragazzino greco, che cammina sulle mani nella vastità sfondata d'una strada d'Epiro biscottata dal sole, e la vegetazione intorno recita lo sconfinato teatro della Natura preistorica. Di più: Il Muro di Berlino non è che quella risibile barrierucola di mattoni, cemento, filo spinato che taglia le impettite architetture come un sipario di funebre bucato. Tre signori di forbita eleganza anglosassone - che ricordano la triplice Età d'una allegoria rinascimentale - sono saltati su un alto tombino per «guardare di là»: insulso teatro della Storia, mobile monumento improvvisato all'imbecillità delle ideologie. Ma spesso le fotografie di Cartier-Bresson amano guardare chi guarda, spiare le traiettorie degli sguardi altrui: com'è della celeberrima immagine dei vecchi curiosi di Bruxelles, che sbirciano attraverso la tenda - chissà se di un circo, o di un eterno cantiere -, lo sguardo interrogativamente deviato, verso la curiosità imprevista della macchina fotografica che rimane un fantasma. Quanti verissimi ectoplasmi, attraversano l'orizzonte improvvisato di queste immagini, che Bonnefoy legge come degli intoccabili haiki. Ed ogni volta l'occhio è come rapito a convogliare lo sguardo verso quel minimo, essenziale fuoco d'imprevedibile dettaglio, che Barthes avrebbe chiamato il punctum della fotografia. Il fiorellino alla bocca sprezzante dello scommettitore di cavalli, lo scarpino sollecito della segretaria che rompe l'ordine lecorbusiano d'una banca, lo squallore plasticato d'un treno romeno, l'accanirsi morandiano d'una natura morta di scarpe accartocciate accanto allo stabbio dov'è trattenuto un handicappato. Personalità sfuggenti, spesso impaniate dentro le coordinate cartesiane della loro soffocante esistenza. Le ingabbiate prostitute di Città del Messico, la scimmia imprigionata nella macchina di vivisezione, l'urlante gamba nuda che sporge dalla Cella del Prigioniero mo¬ dello. Parafrasando LévyStrauss, potremmo dire: il rigido e il molle, il fisso e il mutevole. Due nere formiche di donne greche, passano infagottate sotto una palazzina dalle eleganti cariatidi, simmetriche: per un attimo la carne sfatta si fa di scultura. Un ragazzo corre, intorbidando l'obiettivo d'una nebbia muscolare: sulla parete scatta l'ora immobile d'un orologio dipinto. «Sono semplicemente un tipo nervoso a cui piace la pittura», commenta, sublime saggio, Cartier-Bresson, e aggiunge: «Per quanto riguarda la fotografia, non capisco nulla». Non gli piace barare, «trattare» l'immagine: gl'interessa accogliere nella piccola Leica del suo sguardo questa sovrabbondanza felice di verità. Avverti che nulla è costruito, artefatto, in lui. «La macchina fotografica è per me un blocco di schizzi, lo strumento dell'intuito e della spontaneità. Fotografare è trattenere il respiro. Porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi, il cuore». Difficile incontrare ritratti più veri: la carnosa fragilità di Capote adolescente, l'impacchettarsi femmineo di Mauriac in una poltrona, il mutismo vendicativo di Pound, lo sguardo obliquo e tattico di Sartre. E quando Giacometti attraversa rue d'Alésia, sollecitato da chissà quale scultura, improvvisamente tutto il mondo di pioggia diventa friabile e colloso, come uno dei suoi ritratti. Marco Vallata Pablo Picasso nella sua camera da letto come lo ha visto Cartier-Bresson nel 1946

Luoghi citati: Berlino, Bruxelles, Città Del Messico, Roma