A Rigillo manca un po di volgarità
«Forza Italia» purché si smetta Molta classe per Viviani all'«Osteria» A Rigillo manca un po' di volgarità ROMA. «Osteria di campagna» (veramente, «'A cantina 'e copp' 'o campo») è uno degli atti unici che Raffaele Viviani scrisse e interpretò nel 1918, dopo che la sconfitta di Caporetto aveva indotto le alte sfere a vietare gli spettacoli di varietà in quanto potenzialmente debilitanti del sano spirito bellico. Come avviene dappertutto in situazioni consimili, e figuriamoci a Napoli, i comici tentarono di contrabbandare il vecchio prodotto sotto un'etichetta nuova, nel caso inserendo in un copione che si presenta come un lavoro di prosa convenzionale numeri e macchiette del vecchio repertorio: così la storia di una giornata di riposo, durante la quale si intrecciano le vicende di gitanti confluiti a mangiare e bere in un locale, è rallegrata dalle apparizioni di un Ubriaco, di un dicitore ('0 Professore), di un cantastorie (don Nicola), tutte celebrate macchiette dello stesso Viviani, il quale da ultimo torna come il rispettatissimo guappo Tore 'o Sellare. Dei commensali alcuni sono amene macchiette, altri personaggi con risvolti drammatici; in particolare, la tresca fra Assunta moglie di don Pasquale e tale Peppino arde sotto le ceneri finché quest'ultimo allo scopo di fuggire con la donna non tenta di ubriacare il rivale durante uno di quei terribili giochi collettivi in una vittima viene costretta a bere fino all'inverosimile - e allora il guappo ripristina l'ordine d'autorità. Brulicante di vita e di spunti, la pièce è tutt'altro che agevole da riproporre oggi, in un contesto tanto diverso, e non soltanto per l'alto numero degli interpreti coinvolti (almeno alcuni dei quali devono sapere anche cantare!): la sua stessa struttura apparentemente poco rigorosa può incoraggiare il bozzettismo, il pittoresco, il folkloristico. Per evitare i quali, la produzione del giovane Ente Teatro di Messina diretta da Mariano Rigillo, ora visibile al Valle fino al 16 gennaio, ha cercato un rigore quasi brechtiano, fra l'altro chiedendo allo scenografo Paolo Petti un ambiente spoglio, dove solo i tavoli, i bicchieri tinti internamente di rosso, e un muro con dei rampicanti poco più che simbolici (più le calde luci di Domenico Maggiotti) suggeriscono l'osteria, e facendo momentaneamente estraniare gli attori all'inizio della seconda parte, quando costoro diventano pubblico per l'esibizione di don Nicola. Un tantino allungata con qualche interpolazione, la commedia è infatti divisa in due parti (35' e 45'), con soddisfazione dei fumatori, immagino, ma non senza sacrifi- care ritmo e tensione; lo stile scelto si sarebbe giovato di maggiore rapidità e stringatezza, mentre per farci accettare la minestra allungata ci sarebbe voluto forse un presepe zeffirelliano. Ma non ascoltatemi, detesto anch'io i critici che dicono ai registi cosa avrebbero dovuto fare; quello che Rigillo ha fatto, è stato dare a tutti il destro di figurare a turno; e fra i sedici interpreti, compresi due musicisti, si sono distinti Nicola Di Pinto marito tradito, Massimo Abbate amante dalla bella voce, Sergio Solli commensale parco nonché testimone incuriosito. Dal canto suo, Rigillo ha porto le tirate di Viviani con grande scrupolo filologico e anche con classe squisita, alla perfezione mancandogli soltanto un pizzico di volgarità, ossia di spunto forte, plebeo - e questo chi non lo ha nelle vene non se lo può certo dare. Vestita (da Maria Rosaria Donadio) molto più lussuosamente di tutti gli altri, Mariangela D'Abbraccio come la fedifraga Assunta ha tutto il sex appeal che ci vuole e anche di più, ma la maggior parte del tempo deve limitarsi a controscene in cui lancia torride occhiate all'amante. Avrà occasioni migliori la prossima volta. Ma solino d'Amico Mariano Rigillo protagonista della commedia di Viviani «L'osteria di campagna»: porge le tirate con scrupolo filologico
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