« Novanta milioni di fantasmi »

« « Novanta milioni di fantasmi » «La rivolta del Chiapas è solo l'inizio» LO SCRITTORE JORGE CASTANEDA ACITTA' DEL MESSICO L grido di «No e poi no, figli della disperazione!», il temuto Messico contadino si è risvegliato dal letargo e dalla sottomissione sui remoti altipiani di Chiapas, terra di indios e di antropologi, di ponchos e di sincretismo. Il sorgere improvviso della guerriglia ha scatenato una crisi politica nel Paese, una crisi d'immagine all'estero e - come unica conseguenza positiva immaginabile - una crisi di coscienza nell'elite messicana, da secoli abissalmente lontana dai popoli indigeni che hanno imbracciato le armi. In mancanza di informazioni più pFecise e in attesa di sapere quale sarà l'esito - senza dubbio tragico - della situazione, mi vengono in mente quattro considerazioni. La prima ha a che vedere con la guerriglia. Si tratta, in effetti, di una vera e propria guerriglia e non di un gruppo più o meno organizzato di contadini infuriati e violenti. Se appare evidente che non tutti i componenti dell'Esercito zapatista portano armi dall'efficienza di quelle mostrate dai loro portavoce, non c'è dubbio che queste migliaia di combattenti fanno parte di una struttura organizzata e coordinata, con un comando unico e un messaggio politico che, sebbene arcaico, non manca di credibilità. Questa non è una «jacquerie» millenarista, è una guerriglia di fine secolo. In secondo luogo, la sua stessa apparizione rivela una falla o un mistero quasi incomprensibile nel funzionamento dell'apparato dello Stato messicano. Era da quasi tre anni che si parlava di una guerriglia nel Chiapas. A luglio e ad agosto, il giornale «La Jornada» e la rivista «Processo» hanno pubblicato ampi reportage sui combattimenti nella Selva Lacandona e nella città di Ocosingo. Come ha detto Carlos Montemayor, il famoso scrittore messicano, «in queste regioni anche le montagne hanno occhi». Si sa tutto e i servizi di spionaggio hanno una reputazione di efficienza ben meritata. Non si riesce a capire come alcune migliaia di contadini del Chiapas abbiano potuto addestrarsi e poi mettere in atto un'operazione di grande respiro senza che nessuno se ne accorgesse. Tutto questo risulta ancora meno comprensibile se si pensa che l'attuale segretario agli Interni, Patrocinio Gonzàlez Garrido, è stato fino all'inizio del 1993 governatore del Chiapas. E' la prova di una grave deficienza del governo di Carlos Salinas de Gortari che rivela o un'immensa incoscienza o una crisi interna molto più acuta di quanto si sia immaginato l'inora. In terzo luogo, l'esplosione nel Chiapas dà ragione a tanti critici che dal 1988 insistevano che la strada seguita dal regime di Salinas avrebbe condotto presto o tardi a una crisi di vaste proporzioni. Lui - si sottolineava - arrivava alla guida di un Paese che non poteva essere magicamente innalzato al Primo Mondo con irresponsabili titoli giornalistici o con accordi economici globali, ma che rimaneva fermamente ancorato nel Terzo Mondo di sempre: un Paese che comprende tante diverse nazioni segregate, oltre a ingiustizie e diseguaglianze, autoritarismo e corruzione, povertà e marginalizzazione. La ribellione del Chiapas è un simbolo di questa crisi, ma quest'ultima non si esaurisce li. E non è nemmeno un fenomeno esclusivamente etnico né attribuibile unicamente alla povertà e all'arretratezza - comunque indiscutibile - dello Stato del Chiapas. In realtà, se Chiapas è uno degli Stati più poveri del Messico, è anche una delle quattro regioni nelle quali il governo ha concentrato gli sforzi maggiori per combattere la miseria attraverso il programma «Solidaridad». Il problema di Chiapas, e quello che diede origine alla guerriglia, non è solo di arretratezza, di emarginazione indigena e di isolamento. E' prima di tutto un problema politico. Con Salinas, nel Chiapas molti si sono arricchiti, ma si sono conservate e si sono rafforzate le vecchie strutture politiche e sociali autoritarie, corrotte e oligarchiche. Le autorità statali e l'esercito si sono sempre sfaccia¬ tamente schierati dalla parte dei privilegiati che sfruttano la terra e le comunità. Le forze di sicurezza hanno scatenato una repressione senza pietà contro le popolazioni indigene: hanno violato i diritti umani, hanno incarcerato dirigenti e preti, hanno bruciato borgate e villaggi e hanno ignorato istanze ancestrali. Così, la concezione tipicamente economicistica e dispotica incarnata dal regime di Salinas è naufragata in una politica condannata al fallimento. Gli abitanti del Chiapas chiedono, prima di tutto, di essere trattati con dignità, di non venire umiliati e di non essere perseguitati. Infine, la quarta e ultima riflessione: il Messico non può continuare a essere governato in questo modo. Il problema di Chiapas è il Messico stesso: non è sociale o economico, ma politico. La comparsa della guerriglia, per quanto effimera possa risultare, sta a significare che ci sono dei messicani che non credono nella strada elettorale per canalizzare le loro richieste. Si sapeva già: le ricerche indicano che oltre la metà di quanti vanno alle urne non crede nella correttezza delle elezioni. Il governo di Salinas ha dedicato cinque anni, milioni di dollari, ettolitri di vernice e un'infinità di appoggi e amicizie internazionali per distruggere l'unica opposizione che avrebbe potuto incanalare elettoralmente le richieste e lo scontento di aree come quella del Chiapas: il «cardenismo». E' stato dipinto come radicale, estremista, violento e anacronistico, come se un Paese di magnati e di yuppy del «pri», di avvocati creoli e di classe media, potesse rappresentare 90 milioni di messicani. Cardenas è apparso, così, come il male maggiore che bisognava stroncare a tutti i costi. Oggi invece risulta che Cardenas è il male minore. Il male maggiore sta sugli altopiani del Chiapas, nello Stato di Guerrero, nei «barrios» di Netzahualcoyotl e nelle baracche di Tijuana. E' la violenza, la disperazione, la rabbia. Adesso, la nuova configurazione dello spettro politico che sta sorgendo dal Chiapas è molto vicina al Paese reale. Se si darà come scopo quella democratizzazione che in Messico è stata proposta senza fine, l'ira degli indios e i tanti odi sublimati in questo Paese mestizo di fine secolo potranno allora esprimersi dove dovrebbero: nelle urne. Il male maggiore si eviterebbe davvero e il male minore potrebbe riplasmare una nazione nella quale trovino posto tutti i messicani, compresi il comandante Marcos e gli abitanti di San Juan Chamula. Jorge Castaheda «Il Presidente e l'elite messicana non hanno capito che il vero male sono la disperazione e la povertà» Il cadavere di uno «zapatista» a Ocosingo [foto appi

Luoghi citati: Messico, San Juan Chamula