Sarajevo bersaglio fisso di Giuseppe Zaccaria

Sarajevo bersaglio fisso Sarajevo bersaglio fisso La mappa della città: una serie di stragi TRA LE STRADE DELL'INFERNO U N anno e mezzo fa, nella caserma serba di Lukavica (sembra passato un secolo: a Sarajevo apparivano ancora tracce di vita) un soldato serbo in vena di confidenze mostrò come si fa. Il congegno di puntamento di un mortaio funziona come un compasso: giri una rotellina e, zac, ecco regolato l'alzo. Muovi appena una specie di corona e, voila, la traiettoria sarà più o meno tesa. Infili la granata dall'alto e, baang, venti secondi dopo qualcuno morirà. Due scatti a destra: il colpo piomberà su Dobrinja, in periferia. Quattro a sinistra: a Butmir se la vedranno nera. Un altro scatto, e la devastazione piomberà sulle case di Hrasnica, o le schegge falcidieranno quelle colonne di formiche che attraverso il binocolo vedi arrampicarsi lungo i sentieri del monte Igman. Prendere il centro, beh, quello è più difficile. Infilare la traiettoria proprio nel budello della Titova, la via principale, protetta da palazzi di quattro o cinque piani ed a Merkale larga non più di dieci metri, è colpo da specialista. Il colpo delle grandi occasioni. Proprio questo sta accadendo, a Sarajevo: si avvicinano i giorni delle occasioni definitive. Da qualche parte, negli archivi della Rai, dev'esserci traccia di quella dimostrazione di perizia balistica, che sarebbe così istruttivo rivedere. Quel giorno (era la fine di febbraio) Lukavica era particolarmente frequentata, c'erano il mediatore russo e il signor Akashi, erano appena arrivati i «caschi blu» di Eltsin, che avrebbero dovuto garantire l'incolumità degli assediami. Il clima insomma era quasi euforico e gli artiglieri si prestavano di buon grado a fingere per la tv. Spiegavano che di Sarajevo non sfugge loro neppure un angolo. Quando, con largo anticipo sulla guerra, le batterie serbe occuparono le montagne già disponevano di planimetrie accuratissime, di un reticolo che inquadra ogni strada, qualsiasi edificio. Qualche scatto a destra o a sinistra, una minima re golazione dell'alzo e in pratica non esiste angolo della città che non sia raggiungibile da una granata. Solo nel centro, dove le mura dei palazzi «fin de siècle» fortificano cortili alti e bui, c'è qualche scorcio un po' più protetto: lì se sarà necessario bisognerà intervenire a cannonate o con quelle bombe d'aereo modificate, così pratiche con il loro quintale e mezzo di tritolo. Non c'è rischio, coraggio arti glieri, in fondo è come regolare un orologio o cimentarsi con un «videogame». Spara e bevi, spara e torna a casa. Sta solo attento a non provocare troppo orrore. Prima accadeva sistematicamente: sedici persone qui (strage del pane), dodici lì (strage dell'acqua), sedici ad AUpashino Polje (strage del mercato uno), undici a Dobrinja (strage dell'acqua due), otto morti in fila per l'autobus (strage della fermata), sei bambini centrati sugli slittini (strage della neve), nove donne dilaniate (strage del pane due), sessantotto morti, duecento feriti e pezzi di membra umane sparsi per il centro (seconda strage del mercato, il 5 febbraio dell'anno scorso, proprio a Merkale). Dev'essere stato allora che qualcuno disse ai serbi di non esagerare. Va bene il «videogame», d'accordo il martirio della popolazione, ottimi i risultati del piano di spopolamento della città: ma quei torrenti di sangue, via, quegli arti amputati proprio sotto le telecamere di mezzo mondo... Da allora per un lungo, lunghissimo periodo le stragi a Sarajevo si erano diluite. Fermate, questo no. Altro però sono tre, quattro morti al giorno (oggi facciamo dieci? Va bene, ma solo per questa volta), altro il massacro che porta ai titoloni e rende ineludibile l'indignazione. Adesso, rieccoci ai massacri in scala industriale. E' cambiato, ma leggermente, solo il meccanismo del bombardamento, che prima era soltanto terroristico, adesso anche di rappresagiia. Di solito succede così: un reparto bosniaco attacca sulle colline generalmente a Nord- Ovest. Non c'è molta scelta, solo da quelle parti l'offensiva di giugno ha aperto ai governativi qualche affaccio sulla città. I bosniaci attaccano, dunque, o sparacchiano una salva di mortaio o semplicemente proteggono con un fuoco di sbarramento questo o quel sobborgo. Esattamente in quel momento, a Sarajevo scattano le sirene dell'allarme. Sono mesi però che quei lamenti meccanici si rincorrono ogni mattina, ogni pomeriggio: a volte allarmi e cessati allarmi si rincorrono fino a dieci, dodici volte al giorno. La gente rintanata nei rifugi è costretta a farci sempre meno caso, anche perché il suono delle sirene non placa la fame né la sete, non sostituisce la medicina che non c'è, non fa tornare indietro il borsanerista. Pascano pochi minuti e du SudEst, o Sud-Ovest, o Sud-Sud-Ovest (qui la scelta è amplissima: le batterie serbe dominano Sarajevo da ogni parte) arriva la «salva di ritorsione». I bosniaci dicono che le granate di ieri arrivavano proprio da Lukavica. Ma ha poi tanta importanza sapere se a sparare sono stati i serbi della caserma o i serbi della città? Ne avrebbe solo sotto un profilo: stabilire le responsabilità. Poiché come sempre i serbi negano, dicono che questa è un'altra ferita che i bosniaci si sono autoinferta per commuovere il mondo e bloccare le trattative di pace. Chissà quale interesse a ritardare la pace può avere chi da tre anni e mezzo vive ogni giorno come un'agonia. Ma poi, scusate, non ci sono gli osservatori delle Nazioni Unite? Non più di tre settimane fa i comandanti della Forza di reazione rapida annunciavano orgogliosi che coi loro radar avrebbero individuato in quattro minuti il punto di partenza di qualsiasi salva d'artiglieria, e avrebbero potuto rispondere in sette. Ieri hanno fatto sapere, desolati, di non aver potuto individuare la provenienza delle granate. Una settimana fa furono desolati per un incidente che è costato la vita a quattro diplomatici americani e di cui ancora non si è chiarita l'origine. Giuseppe Zaccaria Gli artiglieri serbi mostrano come centrare i musulmani Il puntamento semplice come un compasso Tatvfu

Persone citate: Eltsin, Titova

Luoghi citati: Dobrinja, Merkale, Sarajevo