Champaigne, pittore eretico

Champaigne, pittore eretico La Francia riscopre un artista «grandissimo ma segreto»: Mère Angélique, Pascal, Racine e Francesco di Sales i suoi ispiratori Champaigne, pittore eretico Immortalò i colori del giansenismo PARIGI A sette anni e mezzo, quando diventa novizia. Si può immaginare con quale ispi razione e felicità. Pianti, rivolte, cadute isteriche, drammi allo spioncino del convento nel distacco con i parenti, così ben drammatizzati nei resoconti di Saint-Beuve. Con il rude genitore Monsieur Arnauld, grande avvocato à la page della Parigi aristocratica, che quasi vorrebbe farla arrestare, per contrastare quegli eccessi bambiiu d'una personalità già profilata, e volitiva. Nasce così la difficile «vocazione» della badessa Angélique Arnauld, la futura Mère Angélique (che sarà adombrata in certi inquietanti personaggi di Klossowski): una classica monaca coatta e rivoltosa, che improvvisamente, trentenne, dopo tanta avversione alla grigia tinta scoiattolo della propria tonaca e il colorato gusto perverso della trasgressione, durante la predica d'un cappuccino ha una folgorante visione e si converte a una vita esemplare. Diventa una rigorosa riformatrice del proprio convento, situato a non pochi chilometri da Parigi, in una zona paludosa e deserta: costruita intorno al 1204 dalla «vedo¬ va» momentanea di Mathieu de Montmorency, partito per le crociate, l'abbazia di Port-Royal è destinata a un raggiante futuro nella storia della cultura di Francia. Ma per l'avvento del giansenismo, che segnerà questo luogo enigmatico, bisogna ancora attendere l'arrivo a Port-Royal del carismatico abate di Saint-Cyran predicatore saltuario del convento e inflessibile maestro spirituale di Mère Angélique, che converte alla dottrina di Jansenius, il commentatore olandese di Agostino, inviso ai gesuiti ma anche al re, che predica l'onnipotenza della Grazia (cieca ed arbitraria) sul presunto libero arbitrio degli uomini, prescelti a caso. Non faremo la gaffe giornalistica e così poco «giansenista» di dire che il jansenisme, in questo rivolo d'ultimo Novecento tanto confusamente disorientato e consumato, nemmen più consumistico, stia «tornando alla moda». No, per carità, risparmiateci questo slogan. Ma certo, avvisaglie di un rinnovato interesse, per questa corrente in odore di eresia, si manifestano a differenti livelli. Studi, saggi, un'analisi del commento di Proust ai Pensées del «giansenista» Pascal, una nuova monografia d'uno studioso portoghese su Philippe de Champaigne, u pittore di Port-Royal, e un riacceso interesse sui suoi affreschi del Chàteau de Vincennes. E persino in Italia Daria Galateria annuncia per Sellerio Un tè a Port-Royal, sapiente pastiche storico-immaginario, romanzo d'una libertina ferita nei disordini della Fronda e ospitata nel convento, che cerca di corrompere il proprio confessore, che strenuamente resiste. Ma il clou di questo «ritorno» al giansenismo consiste nella bella mostra di Philippe de Champaigne, ospitata appunto in questo luogo ispirato detto le Granges di PortRoyal, dove passarono tutti, da Pascal a Racine a San Vincenzo da Paola a Francesco di Sales, che era amico intimo di Angélique, dove Pascal mise in azione il suo pozzo idraulico e dove si ritiravano dal mondo i Solitaires, gentiluomini nauseati dal vivere che non prendevano i voti, ma facevano questa vita casta ed austera (pur attorniati dalle Belles Amies, aristocratiche sofisticate, che si facevano costruire casini, non lontano dai penitenziali cento gradini). Di nascita brussellese (elemento che spesso si dimentica), fiammingo dunque d'impianto (anche se decanta in un alambicco raggelato le paste euforiche di Rubens) ma temprato alla scuola d'Italia (quel caravaggismo tardo filtrato attraverso i chiarori puberali di un Simone Vouet, e pure ci sono in agguato anche certi azzurrini snebbiati alla Guercino), Philippe de Champaigne è pittore grandissimo e segreto, come si sa. Una tavolozza austera e parca di contrasti, a parte qualche ardimento furioso di rossi, violenti come la fede, e di colori primari quasi da tubetto; un decantarsi pressoché scultoreo e monumentale di gesti biblici e controriformati, secondo un declamato au ralenti asciugato di ogni enfasi retorica, ma non di intensità. Come bene dimostra il quadro dell'Ex Voto, che racconta la guarigione dopo una devota novena di sua figlia-monaca, lei pure a Port-Royal e paralizzata. Una cella nuda, la rude tonaca, la luce della grazia che investe Mère Angélique: e quella delectatio dell'immagine un po' stucchevole, da immaginetta, cui ci hanno abituati anche i nostri Dolci o Sassoferrato. La luce come fissata nella colla inesorabile dell'iconografia, la vita glassata nel pietismo, quasi d'una torta conventuale. Con il dolore che si condensa nei dettagli: i piedi gonfi di contrizione del Cristo, le lagrime di glicerina, l'esistere come eterna, felice agonia. Così il pittore replica devotamente i suoi soggetti: e non di copie si tratta, ma come di preghiere ripetute, con quell'effetto mantra ed incantatorio che caratterizza le omelie cantilenanti. Ma egli è anche pittore grande di ritratti, alla maniera del Moroni: parco di cromie, l'abito spoglio di orpelli, un accenno di davanzale all'olandese, onde affacciare la propria devozione. Figure fatte rivivere per lo più da maschere funebri, perché gli Agostiniani rifiutavano la vanità orgogliosa del ritratto. Splendido il ritratto di Singlin, il confessore che «pensava come un Padre della Chiesa ma si esprimeva come un commesso di bottega» e che convertì Pascal, e quello di Maitre de Sacy, che il pittore nascose durante le persecuzioni contro i giansenisti, che portarono alla distruzione dell'Abbazia. Marco Va Nora La sua tavolozza raccontò i misteri e le speranze di una fede destinata alla persecuzione «Ex voto del 1662» olio su tela del pittore Philippe de Champaigne vissuto tra il 1602 e il 1674

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