A morte Pétain, eroe-rottame

A morte Pétain, eroe-rottame la memoria. Mezzo secolo fa : la pena trasformata in ergastolo A morte Pétain, eroe-rottame Processo fra imbarazzi e crisi di coscienza w IN tutta Europa la torrida I estate del 1945 fu una stali gione di giustizia, vendette, 1 regolamenti di conti, gransi di vicende giudiziarie, grandi crisi di coscienza. Ritirandosi verso il cuore della Germania, le truppe tedesche si lasciarono alle spalle, come relitti di un grande naufragio, i politici, gli intellettuali e gli uomini d'affari che avevano collaborato alla creazione di un'Europa germanica, dominata dall'ideologia millenarista di Hitler. Prese il via, nel giro di poche ore, la fase delle epurazioni e delle liquidazioni. In Francia la tragica sequenza delle condanne a morte era cominciata sin dall'alba del 6 febbraio con la fucilazione, nel carcere di Fresnes, di Robert Brasillach, romanziere, saggista, poeta, redattore di Je suis partout, il più velenoso giornale collaborazionista e antisemita di Parigi. Altri Brasillach vennero catturati, processati e spesso fucilati nei mesi seguenti in Francia, Italia, Belgio, Olanda, Norvegia. Più si restringevano i confini dell'Europa occupata, più l'elenco dei collaborazionisti diventava lungo e imbarazzante. La Francia in particolare dovette guardarsi allo specchio e constatare che una larga parte della sua intelligencija era colpevole, politicamente o moralmente, di «intelligenza col nemico». La lista dei collaborazionisti, veri o presunti, formava un voluminoso «who's who» della cultura francese da Jean Cocteau a Sacha Guitry, da Lucien Rebatet a Celine, da Charles Maurras a Henry de Montherlant, da Drieu La Rochelle a Marcel Jouhandeau, da Corinne Luchaire a Viviane Romance. Hitti volgari opportunisti, attratti dal fascino e dai denari di Otto Abetz, potente proconsole del Reich nella capitale francese? 0 non erano forse espressione di una Francia più antica - monarchica, autoritaria, antiparlamentare, «nativista» e antidreyfusarda - che aveva salutato in Pétain il crollo della III Repubblica e la restaurazione dei valori nazionali? La crisi della coscienza francese esplode il 23 luglio 1945, nel momento in cui Philippe Pétain, mare- sciallo di Francia, entra nell'aula dell'Alta Corte. Veste l'uniforme militare e ha sul petto la medaglia di Verdun. Mentre s'irrigidisce di fronte al presidente del tribunale e porta al képi la mano inguantata di bianco, il silenzio invade l'aula. La stessa scena si ripeterà ogni giorno, fino al 14 agosto; e ogni giorno l'ingresso di Pétain sarà accolto da un lungo silenzio. Joseph Kessel, allora cronista di un giornale di Bordeaux, si chiese quale fosse il significato di quel silenzio: «Pietà? Indignazione? Odio? No, credo piuttosto un certo imbarazzo, un malessere, una sorta di dolore astratto, non tanto per l'uomo (...) quanto per la gloria, la patria, il destino e i simboli di cui questo vegliardo, seduto su una vecchia poltrona, porta il peso». Pétain era stato trasportato in Germania, contro la sua volontà, nell'agosto del 1944. Al momento dell'ultima fuga, mentre i rottami del regime di Vichy abbandonavano frettolosamente il castello di Sigmaringen, il maresciallo chiese e ottenne di attraversare la frontiera svizzera. Con grande imbarazzo di de Gaulle, che avrebbe preferito evitare un grande processo all'eroe di Verdun, volle rientrare in Francia e affrontarne il giudizio. Co-, mincia così uno dei più grandi spettacoli della storia di Francia, ora drammatico e nobile, ora operistico, ora ineschino e ignobile. Alla frontiera il generale Koenig, impettito e imbarazzato, rifiutò di stringergli la mano. Nel forte di Montrouge, a Sud di Parigi, il carceriere lo introdusse in una cella di due metri e mezzo per tre in cui vi erano un letto, un armadio e un comodino. Dopo i primi interrogatori potè scegliere i propri difensori e fra di essi un giovane avvocato Jacques Isorni - che sarà per mezzo secolo il più tenace e devoto custode della sua memoria. Il tribunale di fronte al quale fu processato era stato espressamente istituito, con un decreto del 13 novembre 1944, per giudicare i delitti commessi dal governo di Vichy. Ne facevano parte il primo presidente della Corte di Cassazione, il presidente della Camera penale e il primo presidente della Corte d'appello. La giuria fu composta con criteri politici: 12 giurati furono scelti fra gli 80 deputati e senatori che il 10 luglio 1940 avevano votato contro la concessione dei pieni poteri al maresciallo, dodici fra esponenti della Resistenza. Durante le tre settimane del processo sfilarono di fronte alla Corte 63 testimoni, 17 per l'accusa e 46 per la difesa. Parlarono per o contro Pétain quasi tutti gli uomini che avevano governato la Francia o presieduto le sue maggiori istituzioni negli ultimi anni della III Repubblica: Leon Blum, Edouard Daladier, Edouard Herriot, Jules Jeanneney, Pierre Lavai, Albert Lebrun, Maxime Weygand. Pétain ascoltava muto e impassibile. Gli osservatori e i giornalisti furono colpiti dalla sua pelle «marmorea», dai candidi baffi e dallo strano fascino che si spri gionava dalla sua persona. Si disse che fosse olimpico e impassibile perché «duro d'orecchi». Ma vi erano momenti in cui poteva cogliere anche un bisbiglio. Un giorno, mentre il presidente interrompeva i lavori per una pausa, una giornalista, seduta dietro a Pétain, disse sottovoce alla persona che le sedeva accanto: «Il maresciallo ha voglia di fare pipì». «Esattamente» rispose Pétain voltandosi verso di lei. La Francia si divise in due campi. Mentre L'Humanité, organo del partito comunista francese, chiedeva la morte, il Figaro, organo della Francia moderata, suggeriva attenuanti. Erano contro Pétain la sinistra, i resistenti, la Francia giacobina e repubblicana; erano per Pétain i moderati, forti settori dell'opinione cattolica, l'estrema destra e tutti coloro per cui il regime di Vichy aveva rappresentato, dopo la guerra perduta, un'ancora di salvezza. Anch'essi divisi, i tre avvocati della difesa adottarono strategie diverse. Il più anziano, Payen, fece frequenti allusioni alla vecchiaia del maresciallo (aveva compiuto da poco i 90 anni) e sostenne che la sua politica aveva felicemente integrato, nell'interesse della nazione, quella del generale de Gaulle. Isorni preferì insistere sui suoi meriti e sulle sventure che egli aveva risparmiato alla patria. La giuria si divise: la morte fu votata U 14 agosto da 14 giurati contro 13. La Corte raccomandò la clemenza e de Gaulle trasformò la pena di morte nel carcere a vita. In questi giorni, cinquantanni fa, Pétain era da poco arrivato in una fortezza dei Pirenei da cui verrà trasferito, in autunno, nell'isola di Yeu, a Sud della Bretagna. Vi rimarrà fino al giorno della sua morte, il 23 luglio 1951. Fu seppellito nell'isola con una piccola cerimonia cui partecipò, con una corona di fiori, il generale Franco. Sulla tomba fu scritto semplicemente: Philippe Pétain, maresciallo di Francia. Ma qualche anno prima de Gaulle, forse per evitare alla Francia un'imbarazzante crisi di coscienza, aveva composto per lui un'altra epigrafe. E' morto nel 1925, disse, quando si erano manifestati in lui «il disinteresse senile per tutto, l'ambizione senile per tutto». Sergio Romano Mentre gli altri collaborazionisti fuggivano, il vecchio maresciallo rientrò in patria per sottoporsi al giudizio Società' e q ena trasformata in ergastolo Mentre gli altri collaborazionisti fuggivano, il vecchio maresciallo rientrò in patria per sottoporsi al giudizio Nella foto grande Pétain col képi, qui a fianco De Gaulle A sinistra Pétain in carcere, in alto Robert Brasillach La Francia divisa, l'intervento di De Gaulle A sinistra Pétain in carcere, in alto Robert Brasillach Nella foto grande Pétain col képi, qui a fianco De Gaulle