Un convegno sulla cultura del colore

Un convegno sulla cultura del colore A TORINO Un convegno sulla cultura del colore IL colore è fisica: nasce dagli elettroni esterni degli atomi. E' natura: mimetizza ed esibisce. E' fisiologia: diventa percezione in miliardi di cellule cerebrali. E' psicoanalisi: acquista significati simbolici nell'inconscio. Ancora: è messaggio, design, moda, architettura, arte. In una parola: vita. Appunto «I colori della vita» s'intitola un convegno interdisciplinare organizzato da Fiat e Ppg al Lingotto di Torino il 2728 agosto. Interverranno fisici (Tullio Regge), fisiologi (il premio Nobel David Hubel, Semir Zeki, Strata, Glickstein, Bowmaker, Giacobini, Bizzi, Maffei, Berlucchi), pisicoanalisti (James Hillman e Aldo Carotenuto), antropologi (Philippe Fagot), architetti e designer (Aldo Colonetti, Adalberto Dal Lago, Tomas Maldonado, Richard Zahren, Filippo Alison, Daniele Marini, Mary Lewis, Cesare De Seta, Stefano Iacoponi, Nevio Di Giusto, Gaetano Pesce, Michele De Lucchi, Bernard Lassus, Michael Lancaster, Ed Taverne, Magnago Lampugnani, Hernandez-Cros, Benedetto Camerana, gli autori del Piano del colore di Torino Germano Tagliasacchi e Riccardo Zanetta), storici e critici dell'arte (Dorfles, Quintavalle, Jean Clair). Che cosa sarebbe il mondo senza colori si può capire leggendo l'ultimo libro di Oliver Sacks, «Un antropologo su Marte» (Adelphi), dove troviamo la storia di un pittore che, in seguito a un incidente, vede il mondo soltanto in bianco e nero, menomazione che lo precipita nell'angoscia e nella depressione: un dramma umano, ma anche un intrigante caso clinico che ci ha aperto uno spiraglio su come il nostro cervello elabora la percezione visiva. Questo meccanismo è in parte ancora oscuro, nonostante i fondamentali contributi dati da Hubel e Zeki, entrambi presenti al convegno. Newton nel 1666 con un prisma dimostrò che la luce bianca è un miscuglio di colori. Maxwell chiarì che a ogni colore corrisponde una radiazione elettromagnetica di specifica lunghezza d'onda. L'idea più ovvia è che l'occhio e il cervello reagiscano a queste diverse lunghezze d'onda. Ma non è così semplice. Certo, le cellule della retina chiamate coni hanno tre pigmenti, uno per colore fondamentale, combinando i quali si può ottenere la percezione di ben sette milioni di sfumature. Ma Edwin Land ha ottenuto immagini a colori proiettando due semplici immagini in bianco e nero, una delle quali con filtro rosso. Ne possiamo concludere che Goethe non aveva del tutto torto quando sosteneva che «l'illusione ottica è la verità ottica^, slogan che Sacks traduce più correttamente in «l'illusione visiva è verità neurologica». I colori percepiti, insomma, non sono la conseguenza diretta e automatica delle diverse lunghezze d'onda, ma una costruzione del cervello. In un primo stadio la percezione interessa la zona VI della corteccia cerebrale, le cui cellule rispondono alla lunghezza d'onda ma non determinano la visione dei colori: siamo ancora in un mondo bianco, nero e grigio. Poi, come Zeki ha scoperto, il segnale giunge alla zona V4, dove avviene la codifica dei colori, pur essendo le cellule di questa zona indifferenti alla lunghezza d'onda. Il pittore studiato da Sacks (e poi anche da Zeki) distingueva le lunghezze d'onda, attribuendo ad esse una scala di grigi, ma aveva perso la funzionalità di quelle cellule della corteccia cerebrale che traducono la scala di grigi in una visione cromatica. Questo schema, bisogna aggiungere, è molto semplificato: la corteccia cromatica interagisce con un centinaio di altri centri del mesencefalo; inoltre il colore è soltanto un aspetto della percezione visiva: il cervello ha apparati specifici per valutare la forma, il movimento, la profondità. Se è così intricata la fisiologia, possiamo immaginare quanto sia complessa l'elaborazione culturale del colore, dai messaggi elementari di un semaforo fino a quelli sublimi di un'opera d'arte. Per non parlare del ruolo del colore nell'urbanistica, nel design, nella multimedialità (su questo tema è in programma una tavola rotonda condotta da Gad Lerner). Il senso del convegno torinese (segreteria 011-669.0282) sta proprio nella sfida a questa complessità, in un dialogo tra culture troppo spesso separate. Piero Bianucci LO scozzese James C. Maxwell condusse a termine nel decennio 1850-60 una grande sintesi dei fenomeni elettromagnetici che è servita da piattaforma di lancio sia per la fisica moderna sia per la tecnologia del nostro secolo. Dalle equazioni di Maxwell risulta che la luce è formata da onde elettromagnetiche la cui lunghezza d'onda è compresa nell'intervallo tra 400 nm e 600 nm (1 nm = 1 nanometro = 1 miliardesimo di metro). Di fatto lo spettro delle onde elettromagnetiche è enormemente più vasto: parte da onde radio lunghissime per terminare con raggi gamma ultrabrevi. L'occhio umano è sensibile solamente alla luce, ossia a una piccolissima porzione dello spettro posta a metà strada tra questi due estremi, e assegna ad essa un colore che dipende dalla lunghezza d'onda e parte dal rosso per quelle più lunghe fino al violetto per quelle brevi passando per tutte le sfumature dello spettro visibile. Il colore ha quindi carattere antropomorfo e soggettivo: non tutte le persone percepiscono il colore allo stesso modo e la maggioranza degli animali non sa cosa sia il colore o lo vede in modo radicalmente diverso da quello umano; ad esempio molti insetti possono vedere nell'ultravio- DA NEWTON A MAXWELL illll Messi a confronto fisici, fisiologi, urbanisti, critici e maestri del design SCRIVEVA Goethe: «Agli uomini il colore dona grande diletto». In effetti il colore è uno degli aspetti più attraenti di ciò che vediamo: i fiori, i frutti, la luce del cielo all'alba o al tramonto e molte delle opere dell'uomo, a cominciare dalla pittura, ci apparirebbero assai meno piacevoli ed eccitanti se fossero senza colore. Il colore di una luce o di un oggetto non è una proprietà intrinseca di quella luce o di quell'oggetto, ma è qualcosa che nasce nel nostro occhio e nel nostro cervello. Il sole al tramonto non è rosso, e l'erba dei prati non è verde: siamo noi che li vediamo così. E' ovvio tuttavia che ciò che noi vediamo, e quindi anche il colore, dipende dall'agente fisico che causa l'eccitazione delle cellule nervose del nostro occhio, e cioè da onde elettromagnetiche di opportuna lunghezza d'onda. Queste costituiscono lo spettro visibile, compreso tra 400 e 700 nanometri. La nostra capacità di vedere i colori dipende inoltre anche dall'intensità di illuminazione. Se il livello di illuminazione è troppo basso diventiamo ciechi ai colori. I fotorecettori presenti nella retina del nostro occhio e responsabili della visione dei colori (coni) hanno bisogno di un livello di illuminazione abbastanza alto (livello diurno o buita in bande spettrali diffuse. I daltonici non distinguono il rosso dal verde e in pratica vedono il mondo solamente attraverso due componenti primarie. In compenso percepiscono meglio luci ed ombra n scoprono con facilità oggetti ben mimetizzati. Inversamente ci si può chiedere come apparirebbe il mondo a un superuomo dotato di quattro o più componenti primarie e capace di vedere nell'ultravioletto o nell'infrarosso. Possiamo in parte immaginarlo guardando le fotografie eseguite con falsi colori in cui l'infrarosso è sostituito dal rosso, il rosso dal giallo e così via. 10 stesso possiedo l'unica fotografia stereo e in falsi colori esistente al mondo di Werner Heisenberg, quello del principio di indeterminazione: in essa il sobrio vestito del fisico assume un colore rosso volgarissimo e 11 viso diventa cianotico. Se per miracolo ci fosse data la supervista, le opere più celebrate dei grandi pittori mostrerebbero imperfezioni e volgarità inaudite, l'alta moda diventerebbe una pagliacciata insopportabile e ci passerebbe l'appetito davanti a leccornie con colori nuovi ma repellenti. A me bastano i colori che già abbiamo. Tullio Regge Politecnico di Torino Aprirà il Nobel David Hubel, esploratore della percezione visiva sione dell'unico pigmento giallo in due componenti, rosso e verde. Le scimmie del vecchio mondo sono gli unici animali con cui noi condividiamo questa proprietà della visione tricromatica. Il sistema evolutivamente più recente, rossoverde, permette di distinguere tra loro le tinte della gamma verde, giallo, arancione e rosso, ciò che non era possibile con il solo sistema blu-giallo più antico. Si è fatta l'ipotesi che la visione tricromatica dei primati si sia evoluta in corrispondenza con quella dei frutti di colore giallo-arancione-rosso come i manghi e le banane, che costituiscono la dieta prevalente delle scimmie. Per molto tempo si è creduto che questa fosse la visione cromatica più ricca del regno animali. Oggi invece sappiamo che esistono animali con quattro tipi di fotorecettori, come certi pesci e certi uccelli, che verosimilmente hanno una visione cromatica assai più ricca e variegata della nostra. Per contro, è interessante ricordare che gli animali a noi più familiari, come il cane e il gatto, hanno una visione dicromatica: quindi più povera della nostra e paragonabile a quella dei daltonici. Adriana Fiorentini Lamberto Maffei Scuola Normale. Pisa

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