Beirut riapre il Casino degli sceicchi di Igor Man

Beirut, riapre il Casino degli sceicchi Tempio del jet-set che attirava bancarottieri europei e star del cinema Beirut, riapre il Casino degli sceicchi La capitale in pace alla ricerca del tempo perduto MEMORIA IL RITORNO DI UN MITO I governo libanese ha deciso di ricostruire il leggendario Casino du Liban. Jean Lafiche, il croupier più anziano del Casino: non so se fosse, quello, il suo vero nome ma così lo chiamava Stefano Terra. Sì, proprio lui, lo scrittoregiornalista, l'autore di Alexandra, atipico corrispondente della Stampa e della Rai dal Medio Oriente durante i Sessanta. La storia recente del Libano è segnata da quello che i suoi abitanti chiamano, con elegante pudicizia, les evenements, vale a dire la guerra civile che durante 16 anni ha stravolto il già felice Paese dei cedri. Avant les evenements, pendant les evenements, apres les evenements. Prima degli «accadimenti» una sera qualsiasi gettò l'ancora nel porto di Junieh la barca di Onassis. Il Creso moderno aveva a bordo Maria Callas, scortata dal trepido marito, il cavalier Meneghini. Li vidi arrivare, raccontava Jean Lanche, come in un film di Lubitch: lei con i suoi occhi immensi e il seno straripante da deacontadina, lui con gli occhialoni neri, infagottato in un doppiopetto di lino e tuttavia regale; dietro di loro un omino vestito da yachtman portava su entrambe le palme delle mani un bel mucchio di flches, quasi reggesse un ostensorio. Quelle flches scemarono, aumentarono, infine sparirono al tavolo dello chemin defer, sotto lo sguardo impassibile di Onassis, con le imprecazioni (greche) di Maria Callas, e i lamenti dell'ometto. A questo punto del racconto, Monsieur Lafiche chiedeva: ha un'idea lei di quanto possa aver perduto quella notte il grande Onassis? Immancabilmente Stefano Terra rispondeva: mille dollari?, e il vecchio croupier mostrando di scandalizzarsi, felice e beato: centomila, monsieur Terra, centomila, esclamava. Nel febbraio del 1966 ci fu, in Siria, uno dei tanti colpi di Stato. Un po' più cruento degli altri {se possibile). Tutti i giornalisti piovuti in Libano per coprire quel fatto bivaccavano alla frontiera in attesa di un impossibile visto per Damasco. C'era Stefano Terra, c'ero anch'io. Riuscimmo, noi soli, ad avere il prezioso visto, grazie ad un mio carissimo amico: l'ambasciatore in Siria Carlo Perrone-Capano; ma questa è un'altra storia. Bene: di ritorno da quell'impresa (uno scoop, se voghamo), Stefano grato per avergli, io, fatto avere il visto, mi offrì una serata al Casino du Liban. Ero già stato diverse volte in Libano (un Paese dolcissimo, tra parentesi, di gente unica, coraggiosa e capace, splendida) ma non m'oro mai azzardato a varcare la co glia in stile nizzardo del Casino, lontano e solo su una collinetta panoramica, a 30 chilometri da Beirut. Ma Stefano Terra era un uomo ricco, aveva fatto fortuna in Grecia esportandovi i fumetti: poteva concedersi il lusso di offrire una serata costosa ad un collega. La bellezza un po' kitch del Casino du Liban era tutta nell'essere anche un eccellente ristorante ed un trionfale palcoscenico. Tutti gli chef più celebrati di Parigi riservavano un certo periodo del loro tempo prezioso al Casino du Liban (quindici giorni, un mese non so). E tutti gli spettacoli del Lido andavano a rodarsi sul palcoscenico faraonico del Casino per tornarci a stagione finita. Cena, dunque, poi lo spettacolo, infine la roulette. Cominciammo con le ostriche accompagnate da un Chiaretto limpido. Poi la soupe à l'oignons, carne alla Stroganoff, insalata di indivia belga e carote: il tutto impreziosito da un Cabernet d'annata. In ultimo un calibrato sorbetto di limone. Dello spettacolo ricordo il fasto inaudito e gli elefanti bianchi. Non ne ho più visti su di un palcoscenico. E, poi, il numero (struggente) d'un clown triste. Le ballerine erano tantissime, tutte inglesi e forse persino belle, metronomi umani alla stregua delle leggendarie cento ragazze di Radio City, nella New York perduta dei Sessanta. I maghi, i giuocolieri: tutto favoloso ma il pubblico applaudiva solo per cortesia. Già, il pubblico: uno spettacolo nello spettacolo. Gli uomini tutti in dinner-jacket, le donne in lungo, gravate di gioielli come e più di Sant'Agata, padrona veneratissima della città di Catania e per tanto coperta d'oro e pietre preziose. In quel tempo nei locali pubblici si fumava sicché a tre metri dalle innumerevoli poltrone di velluto del teatro del Casino, galleggiava una nuvola azzurrina prodotta dal fumo delle sigarette- i riflettori bucavano quella nube nicotinica regalando riflessi inediti ai volti degli spettatori, sgrammaticati da una noia implacabile. Già: quel pubblico di ricchi (veri) si annoiava. Epperò il clown triste scosse quella gente annoiata che applaudì lungamente il numero. Forse perché quel pagliaccio profetizzava la grande sciagura, insomma les eventements. Vestito come un Dupont qualsiasi, con la faccia di biacca e gli occhi disperatamente bistrati, il clown entrava in una camera-casa: contento. Ma, prima, un vicino cattivo, poi, una banda di giovinastri, infine una sorta di nubifragio, gli demolivano, pezzo dopo pezzo, la casa e lui finiva per rotolare da uno all'altro dei suoi nemici come un indifeso pallone sgonfio dn footba'l Brani della Kowancina di Mussorsky facevano da struggente sottofondo musicale. Mi dicono gli amici che la ricostruzione del Casino du Liban costerà 35 milioni di dollari. Si tratta di rifare la facciata sfregiata dalle bombe e di riattrezzare le tre vaste sale da giuoco. In una di quelle sale mi trascinò Stefano, deciso a riguadagnare i soldi spesi per la cena e lo spettacolo, come disse allegro. Giuocava accanitamente, Stefano, perdendo con disinvoltura sabauda, ma, ahimé tracannando, un bicchiere dietro l'altro, quantità industriali di scotch. Tornando in albergo (il mitico SaintGeorges), si scolò mezza bottiglia di wisky e mi dovettero aiutare il tassinaro e il nortierp a portarlo in came¬ ra. Il mattino dopo non ricordava più nulla. Solo il clown triste. Pare che qualcuno abbia protestato, a Beirut, dicendo che prima del Casino bisognerebbe pensare alle case popolari. Ma io sono convinto che il Casino rigenerato aiuterà il Libano a tirarsi su, aiuterà anche i troppi libanesi poveri, schiantati dagli evenements. Aiuterà soprattutto, portando buoni soldi, la gente a ritrovare il gusto della vita. Spiritosamente certi miei amici di laggiù dicono che, se l'anagrafe funzionasse, si potrebbe compilare, spulciando tra i tanti e diversi rifugiati che il loro Paese non si è stancato mai di accogliere, un «Gotha» fuor del comune: quello dei lazzaroni. Vi rientrerebbero, a buon diritto, certi italiani, primi fra tutti i magliari di Sala Consuma. Il loro capolavoro, se si tiene presente che il Libano ha il genio della bidonatura alla stessa stregua dei napolitani e degli abitanti di San Francisco, rimane quello dei «calzini di pura lana inglese». Nell'inverno del 1968 ne vendettero in gran quantità e tutti li lodavano finché, una sera, un beiruttino, tornato a casa fradicio di pioggia, non espose i piedi custoditi dai famosi calzini, al calore di una stufa elettrica. Dopo un po' i calzini esplosero letteralmentee ustionando le estremità dell'incauto. Si scoperse così che i magliari avevano fabbricato i calzini filando del fulmicotone residuato di guerra. Naturalmente i connazionali della stimata comunità italiana del Libano parlano malvolentieri dei compatrioti fuorilegge, facendo tuttavia eccezione per Ernesto Brivio. Costui, detto «L'ultima raffica di Salò», scapestrato rampollo d'un industriale, si rifugiò a Beirut nella lontana primavera del 1963, inseguito da un pesante mandato di cattura. Era stato eletto consigliere comunale di Roma per il Msi con 38 mila voti di preferenza, dopo una campagna condotta a suon di milioni e di stravaganze Arringava i traste- verini indossando una camicia laminata d'oro, parlò all'Adriano sullo sfondo d'un immenso pannello nero sul quale campeggiava in bianco il suo profilo ricalcato su quello di Mussolini. Ex pilota della Repubblica di Salò, consigliere di Batista a Cuba, litigò coi notabili del suo partito, divenne presidente della «Lazio», rilevò un quotidiano nato morto per dar vita a un nuovo partito neo-fascista: ma la sua buona stella tramontò ben presto e dovette scappare (in Libano) per evitare l'arresto. Partner al tennis di un Presidente del Parlamento, in buoni rapporti col capo della polizia, movimentò durante sei anni la già turbolenta vita notturna di Beirut. Al grido di «A noi!» attaccava spesso briga buscandole immancabilmente. Negli ultimi tempi, avendo il padre stretto i cordoni della borsa, Brivio viveva in un modestissimo alloggio: una camerina, una branda. Sul muro aveva tracciato col carbone la seguente scritta: «Duce: mi hanno tradito tutti meno che te». Assolto infine per insufficienza di prove, quel patetico magliaro della politica riparò hi Spagna, dopo una sosta in Svizzera per farsi rifare la dentiera. Brivio, il mafioso Mancino, Felicino Riva e tanti altri personaggi cui il Libano generosamente offrì asilo, appartengono oramai al passato. Il futuro sarà (forse) diverso, tut tavia io penso che il destino del Libano non può cambiare cavallo: dovrà tornare ad essere la Svizzera del Me dio Oriente, un riuscito amalgama di gagliardi lavoratori e di sontuosi mascalzoni. Un Paese perdutamente bello e buono. Prima che sia troppo tardi vorrei tornare a Beirut, magari solo per passeggiare sulla Comiche, in at tesa della brezza della sera. Viene da Cipro ed è dolce alle labbra, come il bacio del primo amore. Igor Man A sinistra, il miliardario Aristotile Onassis con Maria Callas A destra e sotto, due immagini del Casino du Liban