«Feroci perché abbandonati» di Paolo Poletti
«Feroci perché abbandonati» «Feroci perché abbandonati» Ledda: vi spiego i mali della mia terra LO SCRITTORE E I BARBARI GAVINO Ledda, lei conosce bene la società sarda, la sua società, ce l'ha raccontata vent'anni fa in «Padre padrone». Come spiega questo episodio efferato? «E' uno scoppio di angoscia, un'azione chiaramente opera di non professionisti, di gente disperata, che ò finita male per l'intervento improvviso dei due carabinieri. Hanno scaricato tutta la loro rabbia su quello divise, quei giovani disperati che hanno perso la testa...». Perché angoscia? «Perché chi in Sardegna ha vent'anni o poco più, e non possiede una cultura che possa difenderlo psicologicamente dal senso di abbandono che invade tutti noi sardi, cade in preda all'angoscia, e se non sa incanalarla verso qualcosa di positivo, con una crescita di cultura, diventa facilmente un bandito, por fare "qualcosa" di grande. E' una tentazione che ho avuto anch'io, a quella età, avrei potuto divenir bandito, ma mi ha salvato la voglia di emancipanni studiando. Oggi è più difficile, ci sono i modelli del tutto-c-subito, si rischia di prendere scorciatoie pericoloso, c lo Stato certo non ci aiuta». In che senso? «Dallo Stato unitario la Sardegna, storicamente la prima regione italiana dopo il Piemonte, con una lingua sua, si aspettava molto di più. La Barbagia attendeva scuole e una grande università, invoce ci hanno costruito solo le più malfamate carceri del Paese. Lo Stato latita, non fornisce istruzione, offro solo qualche posto nella polizia e nei carabinieri, non dà i mezzi per diventare moderni. Anche per questo i nostri giovani, da sempre, si sentono abbandonati, e io li capisco». Li assolve, anche quelli che sparano ai carabinieri? «Assolutamente no, ciò che è successo a Ozieri è un lutto por la Sardegna, mi dispiace profondamente per il sangue versato, condanno gli autori del crimine. Ma insieme a loro condanno anche chi, nei palazzi farisaici del potere, a Roma, continua a lasciarli nell'abbandono culturale, e quindi morale». Rischia di essere un discorso pericoloso, a doppio taglio... «Lo so, ma è così. Pure io, ripoto, ho avuto la tentazione di superare quell'angoscia che coglie noi figli di pastori scappando sulle montagne, diventando fuorilegge. Chi non è sardo spesso non capisce, ci accusa di ossero improvvisamente feroci, ma la nostra società evidenzia in modo eclatante la struttura da padre-padrone elio ancora oggi domina, in particolare in Italia». Quindi anche lo Stato, quando si manifesta, si comporta da padre-padrone, esige e non dà nulla in cambio? «Proprio cosi, e il primo padre-padrone abita al Quirinale. Non per nulla in quel palazzo in soli 47 anni di storia repubblicana sono già entrati duo sassaresi...». Come spiega il suicidio del bandito sorpreso al posto di blocco? «E' un fatto nuovo in quella situazione, ma non e nuovo tra i giovani pastori. Molti si sono suicidati nelle campagne, anch'io ci pensai a suo tempo, e la fuga finale dall'angoscia, quella che un poeta avrebbe distillato in una poesia, un pittore in tm quadro. Il pastore sardo la sfoga invece in un colpo di fucile. A maggior ragione chi, sbagliando, pensava di faro "qualcosa" di grande, sia pur negativa come una rapina a un portavalori, e si trova invece di fronte a un altro fallimento. Mi stupisce piuttosto che quel bandito non abbia ucciso anche il suo compagno, per la stessa logica: forse non ne ha avuto il tempo». Potrebbero essere stati usati da qualcuno che profittando della loro disperazione li ha inviati in prima linea, a fare il lavoro più ingrato? «Potrebbe essere così. Può anche darsi che quei dieci disperati dovessero andare all'assalto per poi spartire il bottino con qualcun'altro. Lo modalità dell'operazione, comunque, non sembrano cosi sofisticate: utilizzare una betoniera rubata per fermare un furgone non è certo una tecnica originale, sono andati avanti alla garibaldina». Che cosa può dire ai giovani sardi che subiscono la tentazione di diventare banditi? «Dico loro: io ci ho mosso trent'anni, il tempo di un ergastolo, ad affrancanni, a resistere a quella tentazione facile, studiando per raccogliere qualche fratto. E adesso sto rinascendo. Lo so che quei giovani non vedono orizzonti, elio non hanno niente in testa. Ma li invito ad aver più pazienza, a non gettar via la vita a vent'anni, a resistere qualche anno di più accrescendo la loro cultura, con grande volontà. Io resto convinto che l'uomo, nonostante tutto, tende al bene». Paolo Poletti
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