Venezia degli scomunicati

Venezia degli scomunicati La lotta fra potere politico e religioso nella Repubblica del '600 ricostruita da Cozzi Venezia degli scomunicati La Serenissima contro i Gesuiti MNO degli avvenimenti meno edificanti della Prima Repubblica fu la grande udienza collettiva che il cardinale Martini dette allo stato maggiore della democrazia cristiana in occasione d'una conferenza organizzativa del partito ad Assago nel novembre del 1991. Alla vigilia di una riunione durante la quale la de avrebbe esaminato le proprie responsabilità nella crisi del Paese (eravamo in pieno uragano Cossiga), i suoi maggiori esponenti varcarono la soglia dell'arcivescovado, si presentarono in veste di penitenti di fronte al successore di San Carlo Borromeo e ascoltarono dalle sue labbra una severa omelia, piena di parabole taglienti. Compunta e attenta sedeva quel giorno di fronte al cardinale l'intera direzione del partito cattolico, da Gava a Forlani, da Fanfani a De Mita. Sapevamo quali rapporti corressero fra la democrazia cristiana e le gerarchie ecclesiastiche, sapevamo quali fossero le relazioni di De Gasperi, Fanfani, Moro, Andreotti con la curia romana. Ma nella storia d'Italia, salvo errore, quella fu la prima occasione in cui un intero partito politico andò a «confessarsi» da un vescovo di Santa Romana Chiesa. Doveri civili e devozione Nella Repubblica di Venezia una tale contaminazione fra doveri civili e devozione religiosa sarebbe stata inconcepibile e inammissibile. Il confronto è meno arbitrario di quanto non sembri. In un libro apparso recentemente presso l'editore II Cardo [Venezia barocca. Conflitti di uomini e idee nella crisi del Seicento veneziano) Gaetano Cozzi, uno dei maggiori storici della Serenissima, ci ricorda che anche nella Laguna esisteva un forte partito «papalista». Ne facevano parte tutti quei membri dell'oligarchia veneziana - senatori, avogadori, procuratori, membri del Consiglio dei Dieci o del Maggior Consiglio - che avevano rapporti diretti o indiretti, spirituali o materiali, con la Chiesa di Roma. Decisa ad affermare la propria sovranità e a contrastare qualsiasi interferenza ecclesiastica nella propria giurisdizione, la Repubblica li teneva d'occhio e ne limitava i poteri. Una delle prime leggi europee sul «conflitto d'interessi» fu adottata a Venezia il 31 luglio 1411. In quella occasione - scrive Còzzi - fu stabilito «che quando nei consigli (...) si trattavano questioni concernenti il papa o persone per le quali si ponessero problemi di obbedienza o disobbedienza al papa, ne dovessero uscire coloro che avevano già avuto dal pontefice benefici o prelature, e coloro che aspettassero di riceverli appena fossero stati vacanti». Più tardi fu deciso che nessun «papalista» potesse venire mandato a Roma come ambasciatore. E qualche anno dopo, quando si scoprì che il papa aveva un filo diretto con Palazzo Ducale ed era spesso il primo a conoscerne le decisioni, fu deciso che ai papalisti sarebbe stata vietata non solo la votazione, ma anche la lettura degli atti e la discussione. La situazione peggiorò durante la crisi e il declino della Repubblica tra il Cinquecento e il Seicento. La Chiesa era sempre più arrogante e invadente, il patriziato veneziano sempre più diviso fra «papalisti» e difensori della sovranità nazionale. All'origine delle divergenze vi era, con molti conflitti d'interesse, l'intollerabile pretesa veneziana di anteporre lo Stato e le sue esigenze a qualsiasi considerazione confessionale. L'importanza che i veneziani attribuivano alle attività economiche aveva fatto della loro città uno dei maggiori centri multinazionali e multireligiosi dell'Europa d'allora. I greci erano 12 mila (8% della po polazione), avevano una chiesa e un arcivescovo. I tedeschi ave- vano un fondaco fiorente. Gli ebrei vivevano nel ghetto e avevano «scuole» organizzate secondo il rito della regione d'Europa da cui erano giuriti. E poi vi erano turchi musulmani, calvinisti olandesi, scismatici inglesi, armeni «autocefali», stampatori di libri proibiti, eretici d'ogni forma e colore. Venezia era una macchia nera sul volto del cattolicesimo, una perenne ragione di scandalo per la curia romana e per la «quinta colonna» papalista nel cuore della Repubblica. Esercizi spirituali e segreti di Stato Il punto di maggiore attrito coincise con la penetrazione dei gesuiti nella società veneziana. Tra la fine del Cinquecento e l'inizio del Seicento i membri della Società di Gesù si dedicarono alla conquista della classe dirigente manovrando con grande perizia l'arma degli esercizi spirituali e quella della confessione. Per me glio impadronirsi delle coscienze - scrisse Paolo Sarpi - avevano «inventato la repetizione delle confessioni d'una settimana, d'un mese, et ancora la confes sione generale di tutta la vita, della quale si vagliano per cognoscere gli affetti di tutti». I ge suiti cominciarono a compiacer si dei loro successi. Uno di essi racconta Cozzi - scrisse ai suoi superiori che alcune grandi per sonalità veneziane non decide vano nulla senza il loro consi glio. La crisi scoppiò nel 1605. Nel l'estate e nell'autunno di quell'anno il Consiglio dei Dieci fece arrestare un canonico e un aba te, il primo colpevole di avere strappato un pubblico manifesto e sospetto di «atti scandalosi» ai danni di una nipote, il secondo accusato di omicidio. Il papa, Paolo V, chiesi! che i due religiosi venissero consegnati all'autorità ecclesiastica e pretese la revoca delle leggi repubblicane sulle proprietà della Chiesa. Quando la repubblica rifiutò di obbedire icorse all'arma suprema: scomunica per i dirigenti dello Stato, Interdetto (divieto degli uffici divini e di taluni sacramenti) per l'intera città. Impenitente la Repubblica rispose contestando le decisioni del papa e ordinando ai preti veneziani di dire messa «a chiesa aperta». Gli ordini religiosi che rifiutarono - gesuiti, cappuccini e teatini - abbandonarono il territorio dello Stato, ma contro i gesuiti, in particolare, fu lanciata una sentenza che li bandiva da tutto il Dominio veneto, «da terra e da mar». La vicenda ' ebbe momenti drammatici e sconvolse molte coscienze, ma ebbe anche, come tutte le storie veneziane, la sua parte di scherzi, beffe e «interludi giocosi». Cozzi racconta che un patrizio veneziano, Giovan Francesco Sagredo, s'inventò il personaggio di un'immaginaria nobildonna e cominciò a corrispondere con un gesuita di Ferrara. La nobildonna esponeva casi di coscienza e problemi pratici: debbo pagare le tasse a una repubblica «scomunicata»? A chi lascerò le mie ricchezze in punto di morte? Il gesuita le suggerì di non pagare le tasse e di lasciare alla Società di Gesù l'usufrutto dei beni. Dopo avere inventato il suo personaggio Sagredo lo fece morire e scrisse al gesuita che la nobildonna aveva lasciato alla Società cinquemila ducati. A una condizione: che una staffetta dal cielo comunicasse «in forma autentica» la notizia del «salvo arrivo» della defunta in Paradiso. Quando la corrispondenza fu pubblicata, la città si divertì come a una farsa di teatro. Il braccio di ferro con la Chie sa di Roma durò un anno e si concluse con un compromesso favorevole alla Repubblica. Quello coi gesuiti durò sessantanni e si concluse con una legge, nel 1657, che revocava il bando del 1606. Ma quella, ormai, era un'altra repubblica. Sergio Romano Contro l'arroganza e le sanzioni papali i Dogi reagirono cacciando i religiosi Curiose analogie con la vecchia de e non del tutto arbitrarie Paolo V per ridurre alla ragione Venezia ricorse all'arma suprema scomunicando i dirigenti dello Stato Il cardinal Martini che nel 1991 ricevette lo stato maggiore de La Sala del Maggior Consiglio uno del simboli del potere della Serenissima Qui sotto, Paolo Sarpi che descrisse la penetrazione del Gesuiti nella classe dirigente veneziana