Schwarz, il karateka
Alla scoperta dei nuovi stranieri che nelle prime amichevoli hanno subito acceso l'entusiasmo dei tifosi FIORENTINA Schwarz, il karateka Lo svedese è un duro esperto di arti marziali ESSUNO ci crede. Con quella faccia da ragazzino per bene, quei capelli biondi tagliati stile Anni 50, gli occhi chiari e il sorriso da pubblicità di un dentifricio, non può essere cattivo. E se poi lo si lascia parlare, con quel suo inglese sussurrato e senza arroganza, chi potrebbe accreditargli il ruolo di duro? Eppure Stefan Schwarz è considerato una sorta di Bruce Lee del calcio europeo. Karateka per diletto, Schwarz in campo si trasforma in una sorta di Tir. Non disdegna di alzare i tacchetti ad altezza proibita, non rifiuta i contrasti e le sue gambe sembrano carte geografiche per le cicatrici. Un killer buono, un terminator dalle buone maniere, addirittura elegante. I tecnici lo adorano, non è bello (come dice Claudio Ranieri) ma serve quanto un aspirapolvere per ingoiare palloni dai piedi degli avversari. Non sogna altro: rubare la sfera in fase di interdizione. E se becca qualche pedata si alza, con quel sorriso stereotipato e continua ad andare avanti. Un sangue freddo che è andato in crisi, dal punto di vista umano, in una sola occasione, quando giocava in Inghilterra. Lui, Schwarz, non ha hobby, non ha amici, non ha passioni, vive solo per quella ragazza portoghese che ha sposato. Si chiama Seu, ovvero sole, e lui ne ha bisogno, è l'unica cosa che lo scalda. Lei e la loro figlia, Cloe, 3 anni e mezzo. Ora aspettano un altro figlio che nascerà ad ottobre. Per loro, Stefan il gelido, ha abbandonato l'Arsenal. La famigliola portoghese non si era adattata a Londra. E lui, appena contattato dalla Fiorentina, ha preso carta e penna e ha scritto ai dirigenti britannici: «Ci ho provato, sono un professionista, ma a Londra non riusciamo a vivere. Lasciateci andare a Firenze, nell'Arsenal comunque non resterei...». E l'ha spuntata. A Firenze nessuno ha steso tappeti damascati. La città sognava Roberto Baggio, oppure Mario Basler e Stoichkov. Cecchi Gori aveva promesso una «ciliegina», quello svedese dal padre tedesco non accendeva la fantasia. Ranieri invece puntava proprio al suo nuovo «aspirapolvere» e si fregava le mani per la soddisfazione: «Non è fatto di carne, ma di cemento». Schwarz ha iniziato il lavoro senza cercare gli applausi della gente. Non un solo gol nelle amichevoli disputate, un solo palo colpito contro i cubani, anzi molte perplessità sollevate per la sua condizione fìsica e per una lentezza apparentemente preoccupante. Ha risposto senza alzare la voce: «Sarò pronto per la prima di campionato». Intervistarlo sperando di strappargli una parola colorita, una frase ad effetto, un accenno polemico, è come tentare di sfondare con la testa un blocco di granito. Accetta tutte le domande e risponde sempre nello stesso modo. «Ho iniziato a fare sport a 6 anni, in Svezia, tutto gratuito. Ho fatto hockey, karaté, calcio. La mia prima squadra è stata quella di un piccolo sobborgo di Malmoe, poi sono passato alle giovanili del Bayern in Germania. Infine sono rientrato al Malmoe. Ho vinto quattro scudetti, due in Svezia e due con il Benfica. Ho avuto Eriksson come tecnico, ma allora ero troppo giovane. So che Hamrin per Firenze è stato una leggenda. Ho giocato in Nazionale anche con Hysen. Non è vero che sono cattivo, comunque non più di altri. Nel calcio quando gli avversari hanno il pallone devi cercare di recuperarlo. E per riuscirci devi fare di tutto...». Non cerca i riflettori, si mette alla ruota di Rui Costa e Batistuta: «Loro sono i campioni, loro sono i leader. Puntiamo alla Uefa, gli altri non ci fanno paura, sono uomini, calciatori come noi». Neppure l'Italia gli ha acceso il cuore? Macché: «Buona la pasta, non bevo vino, e poi a tavola mi trovo bene da qualsiasi parte del mondo». Ma siamo sicuri che si siede a tavola? Alessandro Rialti
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