Il cannibale della pittura

Luepertz, dionisiaco boemo Luepertz, dionisiaco boemo Il cannibale della pittura BOLZANO ON la sua ascetica calvizie e la barba ispirata da francescano con troppi anelli alle dita, Markus Luepertz, che pure ha soggiornato come novizio in un convento e quindicenne ha tratto ispirazioni per le sue Crocefissioni dalla romanica abbazia benedettina di Maria Laach, poeta e teorico dell'arte, che ha lavorato anche in miniera e in un cantiere d'autostrada, è oggi uno dei nomi portanti della rinascita della pittura tedesca dopo il «silenzio» seguito alla cattiva coscienza della complicità nazista nel realismo di celebrazione ufficiale. Come si può ancora scrivere poesia dopo Auschwitz? predicava approssimativamente Adorno; ma è proprio lui ad aver forgiato per Stravinskij la felice formula di «musica al quadrato», che si può applicare a tanti artisti del contemporaneo, per esempio anche a Luepertz, «pittore di pitture». 11 che significa, non artista-archeologo, citazionista, che vive di prelievi e di richiami, di d'après e di imprestiti. Ma che è comunque un pittore che si è nutrito di pittura, che ha masticato e metabolizzato questi geni: e che non può impedirsi di dilaniare e rivomitare quanto gli preesiste, Picasso come Malisse, Sutherland (nei disegni) come Arturo Martini (nelle sculture). Lui la chiama: «L'arte alla ricerca dell'arte». Nulla di troppo concettuale, di riflessivo. La sua è pittura che fagocita l'arte che lo precede, è arte cannibale. «Io sono tutto ciò che sono con la pittura. Senza la pittura io non esisto». E come Cocteau confessava d'essere regista-poeta e poeta-pittore, anche quest'artista nato nella Boemia ceca nel '41, oggi diviso tra Dusseldorf e Berlino, dopo esser vissuto a New York e molto anche in Toscana, ama dire di sé: «In realtà io non faccio altro che dipingere. Compongo versi da pittore, creo sculture da pittore, scrivo da pittore. 1\itto ciò che so, lo so in virtù del dipingere». Ouasi la pittura fosse un imperativo trascendentale, una natura pre-istintuale, che trascina dietro sé l'io e la consapevolezza dell'artista-poeta. L'immagine, la l'orma - gettata nella materia, come scottata alla superficie del visibile - è più importante d'ogni altro elemento, anche del contenuto, del significato. Prima c'è questo gesto formale, astratto (nonostante rasenti poi la figuratività); dopo verrà il caixetto triste dell'interpretazione, dell'immagine pariabile, della coscienza visiva comunicabile. Forse quello che intese con l'etichetta di «ditirambico», che dispiegò sulla sua attività degli Anni 60: una forma scossa dalla sua stessa figura, un'aite danzata, trasgressiva, dionisiaca, che guarda prima di capire, che scuote l'immagine da ogni formula preconcetta. «L'arI te è come il sonno, se hai degli incubi nessuno ti può aiutare». La pennellata - il dipingere innanzitutto: che talvolta ricopre, come la lingua affettuosa di un cane festoso, anche la materia porosa e scultorea, schiumosa, di una delle sue Teste gigantesche. E questo Luepertz lo spiega bene nel suo apprezzamento, istintivo e innamorato, di Matisse: «L'incomprensibile dimora in Matisse. E soltanto questo incomprensibile, al di là di ogni interpretazione, può essere definito "compiuto"». E' la visione «solare», mediterranea, la luce di questo artista che rivendica la sua meridionalità di oriundo siciliano (Gottfried Benn, come ci ricorda Andreas Hapkemeyer, distingueva tra Suedlichkeit quale «meridionalità» e Suedmotiv come «motivo del Sud»), meridionalità che pure a noi sembra così scura e schopenaueriana. Ma appunto, il Mito Mediterraneo s'intitola questa impressionante mostra, curata dal solerte Pier Luigi Siena, titanicamente e conventualmente disposta nelle accoglienti stanze del Museion di Bolzano, da tempo attento ai rapporti tra arte del Sud e del Nord. Grandi teste «masticate» dalla foga dell'esprimere, tumefatte come da un pugilato interiore: «Corrose e sfrante, come sconvolte da forze primordiali», ricorda nel catalogo Folio Verlag Giovanni Carandente. E Luepertz non potrebbe definirlo meglio: «Il compimento attraverso la distruzione», che significa inglobare l'errore, connettere le esitazioni, i pentimenti e le rotture impreviste, sacralizzare la furia che smangia la materia e l'incendia di espressività. Materializzare il «mistero» dionisiaco, appunto. Il «sorriso miceneo», quello del Gatto di Alice, che è stata una dei personaggi di Luepertz. Il sorriso della scultura: «L'oggetto più crudele che abbia mai incontrato, perché sorride il guerriero ferito, sorride il morente. Un sorriso disumano, addirittura sovrumano. Un sorriso come un oggetto». Marco Valloni Una delle «teste dipinte» di Luepertz

Luoghi citati: Berlino, Bolzano, Luepertz, New York, Toscana