La guerra che non è finita di Mario Ciriello

Le parole di rimorso (poi ritirate) di Murayama rinfocolano l'ostilità nell'anniversario della resa Le parole di rimorso (poi ritirate) di Murayama rinfocolano l'ostilità nell'anniversario della resa La guerra che non è finita Londra non perdona, Tokyo non si scusa A 50 ANNI DALIA FINE DEL CONFLITTO PLONDRA EGGY Hide è una simpatica signora inglese, mite e gentile, una distinta old lady. Ma non esita a dire: «Io odio i giapponesi e li odierò sempre. Anche i selvaggi più primitivi hanno un codice di condotta: i giapponesi invece non conoscevano che la crudeltà». Sono passati cinquant'anni, ma per Peggy Hide il ricordo delle sue sofferenze è tutt'ora una piaga tormentosa. «Avevo 9 anni, quando i giapponesi occuparono Shanghai e internarono europei e americani. Circa 3000 bambini furono separati dai genitori e rinchiusi in vari campi. Io ero fra questi sventurati. Se la guerra non fosse finita nell'estate '45, non sarei certo sopravvissuta». La voce di Peggy Hide non è che una nell'immenso coro che si leva in questi giorni dalla grande famiglia anglosassone, dall'America, dall'Inghilterra, dall'Australia. E' un coro che in Italia non trova eco; da noi, il cinquantenario della vittoria alleata contro il Giappone ha acceso soltanto il ricordo dei bombardamenti atomici, su Hiroshima e Nagasaki; ma nelle nazioni che quella vittoria resero possibile molte altre immagini affollano adesso il cuore e la mente. Tokyo si arrese il 15 agosto 1945, sei giorni dopo la distruzione di Nagasaki, e, nell'attesa delle imminenti commemorazioni, cresce ora l'agitazione di chi ha conosciuto, e mai ha perdonato, la brutalità nipponica. I più s'inseriscono nel dibattito nucleare con questa semplice osservazione: «Quelle due bombe ci hanno salvato». L'occupazione giapponese fu ovunque durissima (basti ricordare le 150 mila donne coreane costrette alla prostituzione dai militari del Sol Levante) ed eccezio- nalmentc crudele fu il trattamento dei prigionieri di guerra. Pochi drammi bellici sono paragonabili all'inferno della «ferrovia della morte», costruita fra le giungle della Birmania e della Thailandia, 415 chilometri, una saga di cui l'ottimo film «Il ponte sul fiume Kwai» ci mostrano soltanto un capitolo. Ben 50 mila prigionieri alleati - australiani, inglesi, olandesi, americani - morirono durante i lavori, uccisi dalle malattie, dalla fame, dalle sevizie e dalle esecuzioni. Lungo quei binari, morirono altresì 250 mila «schiavi» por¬ tati con la forza da Giava, Birmania, Malesia, Cina e India. A differenza della Germania, il Giappone non ha mai condannato, solennemente, costantemente, il suo aggressivo, spietato imperialismo. Molti sono tuttora a Tokyo i leader i quali ripetono che il Giappone non ebbe mai intenzione di «colonizzare» la Corea (che è quanto fece tra il 1910 e il 1945) e che mai mvase altri Stati asiatici, ma si limitò a entrarvi nel corso di operazioni militari. Soltanto all'inizio di quest'anno, sotto le pressioni di Washington, il Parlamen¬ to nipponico riuscì ad approvare una mozione in cui si esprime un «senso di acuto rimorso» per le sofferenze causate dalla guerra. Ma il testo aggiunge che il Giappone non era «l'unico aggressore»: e ben un quarto dei deputati firmò un altro documento, contrario ad ogni gesto di contrizione. Adesso, proprio in queste ultime ore, la controversia si è riaccesa, più aspra che mai. Il governo di Londra ha diffuso il testo di una lettera inviata a Major, due settimane fa, da Tomiichi Mura¬ yama, un messaggio in cui il premier giapponese «reitera» al collega i «sentimenti» espressi durante il vertice di Tokyo del '93. E dice: «L'allora primo ministro le parlò del suo acuto rimorso e delle sue scuse per le azioni del Giappone in passato, azioni che inflissero cicatrici profonde su così tante persone, tra le quali i prigionieri di guerra». Era questo il tanto bramato «Sony», che, fra l'altro, dovrebbe facilitare l'impresa di quegli ex prigionieri che da anni tentano di ottenere da Tokyo un risarcimento di danni? L'ottimi¬ smo iniziale è presto sfumato. Cos'è successo? Murayama, colto di sorpresa dalle interpretazioni inglesi, ha «ridimensionato» il suo messaggio e ha detto alla stampa nipponica: «No. Non è una lettera di scuse. Avevo già detto a Major le stesse cose per vie diplomatiche». Sprizzano così tutti i vecchi sospetti e gli studiosi del Giappone spiegano: Murayama può anche essere «Sorry», come premier e come individuo, ma il Giappone non è certo «Sony». I veri sentimenti dei giapponesi sono stati esternati dal nuovo ministro della Pubblica Istruzione, Yoshinobu Shimamura. «Non è saggio per il Giappone continuare con questa storia delle scuse e persistere nel dibattito sulle sue presunte colpe». E concludeva, scetticamente: «E' un'era, questa, in cui la maggioranza della gente non sa nulla della guerra». Anche gli esperti dell'«Economist» analizzano questo sviluppi: e non li minimizzano. In un saggio intitolato «Il Giappone che non può dire "Sorry"», questi esperti notano una «corrente di xenofobia, in particolare anti-occidentale». La forza di questa corrente è apparsa evidente dui-ante le molte proteste contro ogni scusa e i suoi attivisti «sottolineano la loro devozione all'imperatore e hanno poderosi legami con i templi shinto, proprio come i loro predecessori prebellici». Gli americani pensavano di aver domato, durante la loro occupazione, queste due calamite del nazionalismo. «Ma la loro influenza è sopravvissuta, e sta crescendo. C'è un nuovo nazionalismo, che vuol por fine alla separazione tra Stato e religione e che chiede un esercito più gagliardo». Oggi come oggi, è impensabile che queste forze prevalgano. Come conclude l'«Economist», la maestosità stessa della potenza economica giapponese dovrebbe elimmare con il passare degli anni i complessi d'inferiorità nipponica: e depurare l'isola dalla sua vecchia xenofobia. Frattanto, però, i dubbi creati dall'arrogante nazionalismo giapponese - quel nazionalismo che ha costretto Murayama a smentire le mterprctazioni britanniche del suo messaggio - gettano un'ombra sulle commemorazioni per la fine della guerra. Mario Ciriello In Gran Bretagna, America e Australia le tv rievocano le atrocità giapponesi «Nemici crudelissimi La bomba di Hiroshima ha salvato il mondo» La resa delle forze inglesi nella base di Singapore e a sinistra un'immagine del film «Il ponte sul fiume Kwai», la storia di 50 mila prigionieri di guerra uccisi dagli stenti nella giungla I reduci «Erano belve» John Major e il premier giapponese Murayama

Persone citate: Hide, John Major, Peggy Hide, Shimamura, Tomiichi