Meno soldi, calano i sipari di Sandro Cappelletto

Hollywood «ridisegna» il comico nero, dopo gli ultimi insuccessi Per il '96 i contributi allo spettacolo passano da 900 a 700 miliardi Meno soldi, calano i sipari Rischiano la chiusura 8 enti lirici su 12 ROMA. Infine i ragionieri centrali dello Stato hanno deciso. Lo spettacolo italiano dovrà stringere la cinghia, fino all'ultimo buco. Nel 1996 i contributi a musica, danza, teatro, cinema e circhi scenderanno da 900 a 700 miliardi. Un risparmio previsto dalla prossima legge finanziaria. Con 200 miliardi si possono comprare dieci carri armati, costruire una quindicina di chilometri d'autostrada; non bastano per rifare il trucco allo stadio Olimpico, ma per calare il sipario sì. «Si sta preparando un funerale, ma non piange nessuno», dice Carmelo Rocca, direttore generale del dipartimento allo Spettacolo. Come nessuno ha ascoltato Riccardo Muti: «Quando si taglia la cultura, sento puzza di...»: dittatura, proprio così. Sciocchezze: troppi sprechi, troppe iniziative, cachet esagerati, lo racconta anche un disinvolto dossier dell'onorevole Pecoraro Scanio. I suoi dati sono da prendere con le pinze e il deputato Ciocchetti lo bacchetta: ti dimentichi che quei soldi danno lavoro a migliaia di persone, che un bel po' ne rientrano allo Stato come tasse. Baruffa d'agosto, ci vuol altro per chiudere la forbice dei ragionieri. Anche l'«Economist» ci spiega che la cultura la consumano i ricchi, dunque se la paghino e se la godano. E alla Camera Usa i repubblicani danno battaglia per abolire il Consiglio Nazionale delle Arti e la sua sciocca abitudine di finanziare mostre, concerti, perfino l'avanguardia. Michael Prowse, esperto di economia della cultura, sostiene che i contributi uccidono l'arte, privilegiando qualche raccomandato sperimentatore a danno di tanti altri che hanno gusti più comprensibili. Eppure alla Fondazione Salomon Guggenheim arrossiscono ancora, quando ricordano la pagina più nera della loro storia: aver rifiutato una borsa di studio a Arnold Schónberg, che l'aveva implorata, per completare il «Mose e Aronne». Ed è stato il principe russo Nicolas Galitzin a pagare a Beethoven - troppo poco, diceva lui - tre degli ultimi Quartetti per archi: ci vuol coraggio a definirli «popolari». A Monaco gli industriali finanziano un festival di teatro e musica dedicato soltanto ai contemnoranei e mettono in palio dei premi per gli artisti. Che pensa di questi tagli la nostra Confìndustria? Troppi scandali in Italia, l'Opera di Roma ha accumulato 60 miliardi di debiti in tre anni. José Carreras ha ottenuto 160 milioni per un solo concerto. La Scala chiede tre miliardi per la prossima tournée in Giappone, eppure l'hanno invitata. Alla commissione Musica c'è chi concede finanziamenti a se stesso. In quella del Teatro si battono come dei leoni per aiutare gli spettacoli di amici che poi avranno strepitose recensioni, utili a chiedere nuovi finanziamenti. Al cinema, qualcuno s'inguatta i soldi ricevuti per produrre un film vero e presenta delle pizzette fatte in casa e costate niente, mentre mogli di ministri scoprono vocazioni irresistibili alla regia. La società civile non sopporta più questi sciali, finalmente. Meglio uno show televisivo di prima serata: mezzo miliardo a puntata, senza dolore. I progetti di legge abbondano, ma nessuno pensa di modificare i criteri di nomina dei responsabili, di stabilire sane incompatibilità, parametri di merito. Si preferisce recidere, via l'acqua sporca e anche i bambini. E lasciare tutti ai loro posti: saranno pochi, ma ne rimangono pur sempre 700, di miliardi. Chi resterà? Gli impresari, i loro amici, i loro gusti. Chiuderanno otto teatri lirici su dodici? Pazienza, prendete un treno e andate a Milano e Roma, se proprio ci te¬ nete a sentire un ciccione piantato lì con le gambe larghe, che canta. E se dovessero nascere dei nuovi Carmelo Bene, Leo De Berardinis, Michelangelo Antonioni, Bernardo Bertolucci, Bruno Madema, Luigi Nono, Luciano Berio, artisti che lo Stato italiano ha l'orgoglio di aver aiutato? Vadano in Francia, in Germania, in Giappone, perfino nell'Inghilterra risparmiosa di lord Major. Molti giovani lo stanno già facendo, lì credono ancora che lo spettacolo e l'arte siano degli investimenti utili a promuovere e vendere la cultura e l'immagine della propria nazione. E a controllarli preferiscono destinare dei competenti. C'è perfino un ministro della Cultura, che se gli decurtano il budget convoca una conferenza stampa e urla fino a quando gli ridanno il giocattolo. Da noi un sottosegretario - in genere nominato per ultimo - che, come ha detto Franco Zeffirelli, «non sa, non capisce, non deve parlare». Però intanto taglia, amputa. Solo due anni fa Gian Paolo Cresci ripeteva che i debiti dell'Opera erano figli «delle esortazioni pressanti a rilanciare il Teatro della capitale e delle assicurazioni date dai massimi e autorevoli esponenti del governo del tempo». Adesso è arrivato il contrordine. Sandro Cappelletto Rocca: «Funerale senza pianti». Nessuno ha ascoltato le accuse di Muti per i tagli alla cultura José Carreras (a destra), 160 milioni a concerto. Sotto Carmelo Bene