L'ultimo party del magico Jerry di Lorenzo Soria

I/ultimo party del magico Jerry I/ultimo party del magico Jerry San Francisco invasa per l'addio a Garcia REPORTAGE IL FUNERALE DEGLI ANNI SESSANTA SSAN FRANCISCO AINT Stephen resterà, tutto quello che ha perso verrà riconquistato», diceva una delle più famose canzoni composte da Jerry Garcia. E così venerdì hanno deciso di rendergli l'ultimo saluto proprio nella St. Stephen's Church di Belvedere, un pittoresco villaggio al di là del Golden Gate Bridge che si affaccia sulla baia di San Francisco. C'erano Robert Hunter, Bruce Weir e gli altri membri dei GratefulDead. C'erano Bob Dylan, Carlos Santana, Bruce Hornsby e gli amici più stretti, che di fronte alla bara aperta hanno ricordato Jerry l'uomo gentile e generoso e Jerry l'artista «la cui musica verrà sentita nel più profondo dei sogni». Poi ha preso la parola Matthew Fox, il reverendo che l'anno scorso, nel giorno di San Valentino, aveva celebrato il suo terzo matrimonio. E che quando ha chiesto ai presenti di alzarsi in piedi e offrire l'ultimo tributo a Jerry Garcia, ha provocato un applauso che si è sentito a vari isolati di distanza. Mentre a Belvedere si svolgeva il funerale privato, a Haight Street, a pochi passi dal Golden Gate Park, andava intanto avanti, giorno e notte, la veglia pubblica. Questa è la strada-simbolo della San Francisco hippie, la strada che ha dato vita alla rivoluzione pacifista e ai figli dei fiori, alle manifestazioni contro la guerra nel Vietnam e alla sperimentazione con le «sostanze - come vengono diplomaticamente chiamate - di alterazione della mente». Ed è proprio al numero 710 Haight Street, dove viveva in quegli anni, che Jerry Garcia ha fondato nella primavera del '64 i Grateful Dead. Band ufficiale degli «acid parties» di quei giorni di utopia, di sogni, di illusione e di Lsd. Ma a 21 anni dalla «Summer of Love», l'estate d'amore è diventata l'estate della tristezza. Da quando mercoledì mattina si è sparsa la notizia che il leader dei Grateful Dead era morto a 53 anni in un centro di recupero vicino a San Francisco dov'era andato a disintossicarsi dall'eroina, le strade attorno a Haight Street sono state invase da gente con le T-shirt con i colori dell'arcobaleno, con i sandali ai piedi e alla guida di camioncini Volkswagen dipinti di viola, di rosso e di arancione. Come se il tempo si fosse fermato. Arrivano i cinquantenni con le barbe lunghe e i tatuaggi sulle braccia, ma anche quelli con i mutui da pagare e stipendi, in dollari, di sei cifre. Ci sono spesso anche i loro figli e, in braccio o dentro le carrozzine, i loro nipotini, tutti uniti dal bisogno di ritrovare le stesse radici e di riempire lo stesso vuoto. Qualcuno versa lacrime in silenzio. Ma sono di più quelli che ballano e che con le congas e con le pentole improvvisano versioni struggenti di «Ama- zing Grace» o vecchie canzoni dei «Dead». Col passare dei giorni, e delle ore, la processione cresce. I «deadheads» -, così si chiama il popolo di quelli che seguono i Grateful Dead - non sono dei fans. Sono dei seguaci, dei fedeli, dei convertiti. E adesso i «deadheads» continuano ad arrivare dal Montana, dall'Oregon, dal Colorado, dal Kansas. E davanti al 710 di Haight, in un piccolo tempio improvvisato, ognuno celebra la morte di Garcia a modo suo. C'è chi accende una candela e c'è chi lascia un mazzo di fiori, la copertina di un vecchio Lp, una foto. C'è anche chi, come questo quarantenne con la panciona da troppa birra proprio come quella di Garcia, deposita uno spinello. «Jerry, I love you», ha scritto Jeremy in una nota che accompagna il suo singolare dono. «Quando ti raggiungerò, suoneremo assieme in paradiso e fumeremo un sacco». Passa una ragazza sui 20 e lascia un altro biglietto anonimo che dice semplicemente: «Thank you». Ma ecco Robert, giunto apposta dal New Mexico. «Non vado mai ai funerali, non sono andato neanche a quello di mio padre», dice. «Ma questo è troppo, non potevo perdermelo». E' un po' come se i «Sixties», i mitici, decantati, vituperati Anni Sessanta si fossero ufficialmente conclusi alle 4,23 della mattina del 9 agosto, quando Jerry Garcia è stato trovato esanime al Serenity Knolls Center di Marin County. Più che una leggenda del rock, è scomparso un uomo che per generazioni di americani era assieme un fratello, un amico e un guru «Jerry ci ha aiutati a capire come vorremmo essere tutti nel profondo dei nostri cuori», spiega Bruce Gere, un elettricista. «Adesso non c'è più e non potremo più rivivere quello spirito». Aggiunge Lesley Sagedy, una programmatrice di computer sui cinquanta: «Non riesco a immaginare San Francisco senza Jerry». Arrivata in ufficio ieri mattina, il suo boss l'ha vista e ha capito al volo. «Vai pure», le ha detto e Lesley è venuta qui in Haight a depositare dei fiori. Ma il suo stesso impulso è stato sentito da migliaia di persone raccoltesi al Griffith Park a Los Angeles, al Central Park a Manhattan, al Grant Park a Chicago e in decine di città e cittadine sparse in ogni Stato e contea d'America, ritrovatisi assieme più che a piangere un amico scomparso, a riflettere sugli anni della propria innocenza e dei propri sogni spesso infranti. I Grateful Dead non hanno mai prodotto un disco finito in testa alle classifiche di vendita. I loro album più famosi risalgono agli Anni Settanta. C'è una sola loro canzone che è finita nei «Top 10», quella «Touch of Grey» registrata nell'87, nella quale Jerry Garcia cantava, ironia della sorte, «I Will Survive». Sopravviverò. Anche la musica dei «Dead», un misto di rock, folk, country e blues, non ha mai generato niente di particolarmente originale o innovativo. Se Jerry Garcia e la sua band sono entrati nella leggenda, lo si deve invece alla musica fluida, spontanea e quasi sempre improvvisata dei loro concerti. Dei veri happening, dove arrivavano gli agenti di Borsa di Wall Street alla ricer¬ ca, sia pure per un solo weekend, del tempo perduto e, con loro, un popolo di gente che da anni vive «on the road» con i Grateful Dead. Quasi una religione, i cui credenti sono uniti da uno spirito di fratellanza, comunità, amore che tiene assieme le persone più disparate, in contatto tra di loro attraverso i concerti, ma anche attraverso decine di newsletter, di «fanzine» e di bollettini Internet. Al centro di questo fenomeno c'era lui, Jerry Garcia, con il suo barbone, con il suo calore, con la sua sigaretta e la sua bottiglia di Budweiser sempre in mano, con la sua pancia da Buddha e con la sua chitarra sincera. Negli Anni Sessanta, negli anni degli «acid parties», a San Francisco lo chiamavano «Captain Trips». Diabetico, dieci anni fa fini in coma. Aveva cercato di smettere di fumare, di perdere peso, di cessare di usare eroina, la droga che ha finito per dare la botta finale a quel corpo di cui aveva abusato per così tanti anni. Non ce l'ha fatta e adesso viene pianto e ricordato con la stessa intensità che circondò la morte di altri due «grandi» del rock, Elvis Presley e John Lennon. Ha voluto rendere omaggio a Jerry Garcia persino Bill Clinton, che fattosi intervistare da Mtv, ha ricordato che anche Chelsea, a 15 anni, si considera una «deadhead». «Un genio -, ha detto -. Un grande talento». Ma, oltre che l'estate della tristezza, questa è anche l'estate subito prima di quella delle prossime elezioni. E così il Presidente ha aggiunto che la sua morte è un avvertimento per stare lontani da «comportamenti autodistruttivi». Lorenzo Soria Bob Dylan e Santana tra la folla dei nostalgici Anche Clinton fa le condoglianze Jerry Garcia in una foto recente (FOTO REU7 ER] Un altro mito della musica degli Anni 60 presente ai funerali Bob Dylan I Grateful Dead agli esordi e un loro fan in lutto: Clinton