Il cuore sicuro della Spagna di Mimmo Candito

Il cuore sicuro della Spagna Il cuore sicuro della Spagna // sovrano resta garante della transizione senza caos NEL MIRINO OMADRID RA che il re lo fa davvero, Juan Carlos, e lo fa bene, e gli tocca anche stare nel mirino folle dell'Età, nessuno quasi se ne ricorda più: ma vent'anni fa, quando lui cominciò, che era poco più di un giovanotto impacciato, lo chiamavamo tutti «Juan il Breve», e voleva dire che sarebbe durato poco; che era il re di una solo settimana. Vent'anni dopo Juan Carlos sorride, se un suo vecchio amico con qualche imbarazzo glielo ricorda (l'ultimo è stato Carrillo, ed erano fuori dal protocollo); la sua corona oggi appare un autentico miracolo di equilibri istituzionali e di buona suerte, la combinazione irripetibile di fattori politici che hanno contribuito a consegnare all'incerto principe di un regime moribondo le chiavi felici della transizione alla democrazia. La leggenda era nata un pomeriggio d'ottobre del '75, quando i segnali che arrivavano dall'altra parte della frontiera raccontavano il dolore ancora aspro, e la rabbia, di tutta l'Europa, che pochi giorni prima aveva dovuto assistere, impotente, alla fucilazione di 5 giovani terroristi. Perfino Paolo VI s'era mosso a chiedere clemenza. Ma Franco, testardo, deciso, aveva detto che no, che non s'impicciassero dei fatti di Spagna, «y que mueran»; subito, alla frontiera dei Pirenei s'era innalzata una indignata barriera della civiltà, che di nuovo spaccava due mondi irriconcilabili, come nel '39. Franco in quel primo giorno d'ottobre aveva allora chiamato gli spagnoli a dire al mondo che stavano tutti con lui, e in Plaza de Oriente se n'erano raccolti in processione un milione, con i fazzoletti bianchi in aria come quando si riconosce al matador che è stato un eroe e che gli tocca in premio l'orecchia del toro. Sul balcone centrale del Palacio, di fronte alla folla che l'acclamava, Fra-ico, piccolo, grigio, malato, con gli occhiali neri, aveva d'improvviso abbracciato lo spilungone biondo che gli stava accanto, il principe Borbòn. Era l'abbraccio simbolico che san- riva il passaggio di un'eredità, la consegna di un potere futuro. La folla s'era perduta nel deliquio dei fazzolletti, che ondeggiavano nel vento come l'immensa vela di un'illusione collettiva; la continuità era assicurata, la Spagna eterna sfidava ancora una volta il mondo e vinceva. Ma a tutti noi che da Madrid, o dall'Europa, guardavamo inquieti la cronaca drammatica di quei giorni, l'abbraccio del vecchio dittatore era sembrato invece l'abbraccio della morte. L'abbraccio che portava nella tomba le speranze di quest'ultimo principe senza corona. Era nata la leggenda di Juan il Breve. Sono passati vent'anni, e oggi Hugh Thomas dice che «Juan Carlos è stato il fattore essenziale per consolidare gli equilibri politici della transizione». Lo ha detto da Città di Messico, dov'è a un convegno di storici; e ancora non sapeva nemmeno dell'attentato. Non c'è emozione, dunque, o cortigianeria in questo giudizio alto, che fissa però l'intero percorso di una difficile trasforma- zione politica. In questi vent'anni Juan Carlos ha saputo mediare con discrezione tra le spinte che schiacciavano il suo regno difficile: ha rinnovato il legato del vecchio dittatore, smontando con Adolfo Suàrez le manovre restauratrici del tetro bunker franchista, e ha anche concesso all'antica opposizione - repubblicana e izquierdista - gli spazi per un progressivo reinserimento nella vita politica della nuova Spagna. E Carrillo, Brandt, e la grande finanza internazionale, ci hanno poi messo di loro quel poco che mancava per tenere buoni i falangisti e i generali, e portare il Paese dentro l'Europa. Non è che tutto sia filato sempre liscio, ma la notte del 23 febbraio dell'81 il giovane re di Spagna si è guadagnato per sempre il titolo (del quale è poi autenticamente fiero) di re di tutti gli spagnoli. Quel giorno, il tricorno di cartone sulla testa e la pistola in pugno, un colonnello della Guardia Civil s'era impossessato delle Cortes. «Todos al suolo, cono», aveva urlato, sparan- do, ed era cominciato l'ultimo braccio di ferro tra la giovane democrazia e i fantasmi inquieti del passato. Il braccio di ferro durò fino all'una e 24 del mattino, con l'intera Spagna che, insonne, inquieta, anche terrorizzata, bivaccava di fronte al televisore, aspettando una parola, o comunque un segnale, che spiegassero chi stesse vincendo, e chi invece perdeva in questa nuova guerra civile. Molti scapparono di nuovo, comunisti, socialisti, un'opposizione che aveva appena ritrovato il diritto alla voce, e la propria dignità. Scapparono nel buio della notte, e ci fu di nuovo paura e angoscia. Poi, all'una e 24, le immagini del televisore s'interrupero bruscamente e Sua Maestà il re Juan Carlos entrò ne! piccolo schermo. Parve in quel momento che perfino l'aria della notte tenesse il fiato, in attesa della prima parola. Perché in quella parola milioni di uomini e di donne si giocavano ogni progetto di vita. Il re aveva la faccia tesa e smagrita - lo ricordo ancora oggi - e gli occhi di un lungo dramma. Indossava l'uniforme di comandante in capo delle forze armate, e leggeva un piccolo foglio che teneva tra le mani. La voce venne fuori dal televisore appannata dall'emozione, disse appena «La Corona, simbolo dell'identità e dell'unità della Patria, non può tollerare attività di persone che pretendano d'interrompere il processo democratico sancito dalla Costituzione». Un ruggito venne fuori dal cuore della Spagna, la monarchia aveva scelto, il re stava con la democrazia. Qualcuno oggi investiga ancora su quella lunga notte che separò il colpo di pistola dal discorso in televisione; l'altro ieri ho avuto modo di leggere alcune pagine del libro che Tusell pubblicherà a ottobre, «Juan Carlos I. La restauraciòn de la democracia», il lavoro dello storico sanerà ora molte perplessità. In questi venti'anni Juan Carlos ha saputo comunque interpretare con saggezza i limiti del proprio ruolo, accettando di seguire nella discrezione, dall'ombra, il confronto vivo della lotta per il potere. Ieri chiedevo notizie del re a Pedro J. Ramìrez, che è l'uomo che in questi giorni sta pilotando la vita politica spagnola; il direttore di El Mundo mi ha risposto: «Hombre, sono mesi che non lo vedo». Juan Carlos ha scelto di fare il re, resta lontano dallo stagno maleodorante nel quale s'è impantanata questa Spagna triste di bombe e di dossier. Mimmo Candito Mentre dilaga lo scandalo dei Gal la gente crede che saprà evitare rischi per la democrazia