«La mia terza via dopo Walesa»

La mia terza via dopo Walesa» La mia terza via dopo Walesa» L'ex ministro comunista favorito al voto IN CERCA DI UNA GUIDA AVARSAVIA LEKSANDER Kwasniewski avrebbe molte ragioni per essere presuntuoso. A 30 anni è stato il più giovane ministro di un governo comunista polacco, e in quel sistema che richiedeva un lungo e fedele tirocinio per accedere alle alte cariche, fu un salto di carriera per lo meno insolito. Oggi, a 41 anni, guida l'Sld, il partito nato dalle ceneri di quello comunista e, secondo i sondaggi, è il più accreditato candidato alla successione di Lech Walesa nelle elezioni di autunno per la presidenza della Repubblica. E' stato anche presidente del comitato olimpico polacco, ha una bella moglie, parla perfettamente l'inglese, gli piacciono i salotti dove mette in mostra un fascino vagamente kennediano, ama lo sport e, come dice il suo mentore, l'ex capo del governo Mieczyslaw Rakowski, «per il gioco del calcio sarebbe disposto a vendere sua madre». Lei è giovane. Ritiene che sia un vantaggio nel farla considerare meno compromesso con il passato? «Ognuno di noi ha un passato, ha dei legami per i quali è in qualche modo responsabile. Ma la vera responsabilità è per gli atti personali, e io sono pronto a rispondere per me, per la mia attività politica, ma non sono colpevole per quanto possono aver fatto Gomulka o Jaruzelski. Credo che l'ascesa al potere di questa nuova generazione che noi rappresentiamo, legata ai valori della sinistra ma anche critica nei confronti della pratica di quei partiti, sia un fatto importante. Noi a più riprese abbiamo cercato, a parole e coi fatti, di riformare il nostro partito, il Pzpr, nella convinzione che fosse riformabile. Forse eravamo ingenui. Poi ho capito che nelle nuove condizioni di democraticità del dopo 1989 il Pzpr, un partito non democratico, non poteva più esistere, non poteva sopravvivere». Ma lei non pensa che proprio dal passato traete la vostra forza,1 che molti di quelli che vi votano pensano che 10 anni fa si stava meglio di adesso? Secondo i sondaggi questa è l'opinione di quasi metà dei polacchi, e del resto il «dittatore» Jaruzelski è tornato ad essere in auge mentre Lech Walesa, eroe della rivoluzione, è in calo di popolarità. «Non credo. Anche se c'è gente che stava meglio prima, e molti hanno nostalgia del posto di la- voro garantito, del senso di sicurezza sociale, non ci sono oggi gruppi consistenti che vogliano un ritorno al sistema pre 1989. Non siamo figli della nostalgia. Se abbiamo avuto voti, è anche perché siamo stati gli unici dopo il 1989 a lottare per la reputazione, l'onore di coloro che erano stati attivi nella Polonia comunista, perché la destra voleva metter sotto accusa l'intero passato dicendoci che tutto quello che avevamo fatto e rappresentato era un indegno tradimento a favore dell'Unione Sovietica». Ma lei, dopo la vostra vittoria alle elezioni del 1993, è arrivato al punto di chiedere scusa per il passato. Questo sembrerebbe indicare che si sente colpevole. «Credo di aver detto una cosa importante e necessaria. Aveva vinto la sinistra, e nella sinistra ciò aveva suscitato naturalmente grande gioia e euforia, ma aveva destato altrettante preoccupazioni fra chi temeva che con la vittoria della sinistra sarebbero toniate in auge certe pratiche del passato. Ho pensato che dovevo dire ad ambedue gli elettorati, e forse più al mio per frenare un certo trionfalismo, che condannavamo i crimini del passato. D'altra parte ci rendevamo conto che molte persone avevano subito torti dal passato regime, erano stati anche in prigione, e a tutti questi bisognava dire "vi chiediamo scusa". E io queste scuse le ho fatte». Parliamo di elezioni. Nel 1989 le avete perse in maniera clamorosa, ottenendo qualche seggio alla Camera solo perché la legge elettol'ale li aveva bloccati per voi. Nel 1993 avete vinto. Ora controllate il Parlamento e con lei arriverete forse anche alla presidenza della Repubblica. Come spiega un cambiamento così repentino nelle preferenze degli elettori? «Vede, una società che è appena approdata alla democrazia è più emozionale che razionale. Ciò detto, una certa logica in tutto questo c'è, perché in quelle due successive elezioni i polacchi hanno sconfessato due utopie: nel 1989 quella del socialismo reale, e nel 1993 quella del liberalismo che si esprimeva secondo slogans come "la migliore politica industriale è la mancanza di una politica industriale", e la gente si è accorta che è vero, con il liberalismo tutto funziona meglio, ma i prezzi sono alti, ci sono tre milioni di disoccupati, e quindi non è l'ideale, e allora ha cercato qualcosa di nuovo, una via di mezzo. E su questa via di mezzo si sono trovate formazioni politiche come la nostra, che dicevano no al passato, ma postulavano elementi di programmazione economica e di difesa sociale. Questo è il primo fattore. Come secondo metterei quello di cui parlavamo prima, la violenza fotta a quei 20 milioni di polacchi che nella Polonia comunista hanno studiato, hanno lavorato, hanno fatto carriera, hanno guadagnato titoli e medaglie: è stato un grave errore della destra rinnegare qualsiasi valore a quella esperienza. Il terzo fattore è la Chiesa: con il suo atteggiamento aggressivo, fanatico, offensivo ha scoraggiato molti fedeli che si sono così rivolti a noi. Il quarto è un elemento puramente pragmatico: le elezioni, come lei sa, sono una questione di competenza, organizzazione, e ne avevamo più di tanti altri». Lei indica questo come quarto elemento, ma molti, fra cui Giovanni Paolo II nella sua intervista a «La Stampa», lo considerano come il primo, se non l'unico, per spiegare la vostra vittoria: organizzazione, esperienza, e anche, cosa che lei non ha menzionato, soldi. «Guardi, in Polonia ci sono solo due strutture organizzate: la nostra e quella della Chiesa. E se la Chiesa non ce l'ha fatta, vuol dire che gli altri tre fattori che ho menzionato hanno un peso determinante. Perché dei mezzi che hanno i parroci non dispone nessuno: intervengono regolarmente una volta alla settimana con la loro predica politica, in ogni angolo del Paese... nessuno arriva a tanto. E a ciò aggiunga i mezzi materiali, che sono immensamente superiori a quelli di qualsiasi altro partito». Guardiamo allora un po' fuori dai confini della Polonia: dei 22 Paesi che sono emersi dal crollo del comunismo e dall'esplosione dell'Unione Sovietica solo quattro oggi non hanno gli ex comunisti alle leve del potere: Lettonia, Estonia, Albania e Repubblica Ceca, che rappresentano 18 milioni di persone contro i 360 degli altri. Non le sembra strano, dopo che nell'89 tutti erano convinti che il comunismo fosse entrato in una crisi terminale? «Non bisogna fare di tutta l'erba un fascio, e non bisogna ragionare in base a stereotipi: i co- munisti sono finiti, i comunisti sono tornati. Prima di tutto il comunismo, li dove non era strettamente ortodosso, ha subito negli anni precedenti l'89 dei cambiamenti colossali. Sono spariti quei partiti comunisti che erano fanaticamente rigidi, comi; quello tedesco orientale o quello ceco. Non è un caso che in Polonia, in Ungheria il partito non si sia mai chiamato comunista, ma operaio. Perché? Perché la parola comunista era già così impopolare che era meglio non usarla». E in Italia, Berlusconi, quando li vuole punzecchiare, chiama ogni tanto gli eredi del pei «comunisti» o «ex comunisti», e loro si arrabbiano. Lei la considererebbe un'offesa? «Sì, io protesterei contro questo che considero un tentativo di creare o di mantenere in vita degli stereotipi dai quali bisogna uscire. Io risponderei cosi: è vero, sono stato membro del Pzpr fino all'89 e sono pronto a risponderne e a discuterne. Ma oggi siamo nel 1995, da sei anni quel partito non esiste più, e oggi certo mi si può domandare cosa ho fatto fino all'89, ma forse è più giusto chiedermi cosa ho fatto dall'89 fino ad ora, quanto ho contribuito, come politico, al successo del processo di democratizzazione, di riforma economica, di privatizzazione, di apertura verso il mondo esterno. Se mi chiedono: sei stato membro del Pzpr, rispondo sì lo sono stato. Se mi chiedono: sei stato comunista, dico no, non lo sono mai stato, e quindi non posso nemmeno essere definito un ex comunista». I sondaggi per le elezioni presidenziali di fine anno le riconoscono al primo turno il 32% dei voti, mentre il suo più vicino contendente ne ha circa la metà. E' fatta? «Tutt'altro, e credo che malgrado tutto il mio avversario più pericoloso rimane l'attuale presidente Lech Walesa. In parte per il vantaggio di essere in carica, molta gente lo voterà per inerzia, e poi perché anche lui dispone di mezzi e di una efficiente organizzazione. Se fosse rieletto penso che sarebbe un Presidente migliore di prima, meno attento ai giochi di potere e più agli interessi del Paese e al posto che gli spetta nella storia». Onore all'avversario, ma quel posto nella storia Aleksander Kwasniewski sembra deciso a meritarlo più di Lech Walesa. Jas Gawronski Aleksander Kwasniewski è in testa ai sondaggi per le presidenziali «Noi e la Chiesa siamo le uniche strutture organizzate del Paese» «Ma se Lech fosse rieletto penso che farebbe meglio di quanto ha fatto fino ad oggi» «La gente sconfessa la vecchia utopia del socialismo reale, ma anche quella del liberalismo senza controlli» «Dopo la nostra vittoria alle elezioni del 1993 abbiamo chiesto scusa a chi aveva subito torti dal passato regime» Aleksander Kwasniewski, 41 anni, parla perfettamente l'inglese, gli piace frequentare salotti dove sfoggia «un fascino vagamente kennediano» e nutre una passione sfrenata per il gioco del calcio La mL'ex Al presidente polacco Lech Walesa (nella foto a fianco) per vincere le prossime elezioni non sarà più sufficiente rivendicare il merito di avere svolto un ruolo di primo piano nella sconfìtta del generale Jaruzelski (nella foto in alto) Aleksander Kwasniewski, 41 anni, parla perfettamente l'inglese, gli piace frequentare salotti dove sfoggia «un fascino vagamente kennediano» e nutre una passione sfrenata per il gioco del calcio