Nella terra del grande esodo di Giuseppe Zaccaria

Nello terrò del gronde esodo Nello terrò del gronde esodo Tra case e negozi abbandonati intatti LA KRAJINA RICONQUISTATA KRAJINA DAL NOSTRO INVIATO La bandiera croata non sventola solo sul castello di Knin: adesso campeggia sulla rocca di Obrovac, copre il comignolo della stazione di polizia di Drnis. A Rakovica, dove non c'erano aste a disposizione, pende dalla sbarra innalzata di un vecchio check-point serbo, sul Velebit domina la montagna da un'altissima antenna televisiva. Sono infinite, le scene di una riconquista, eppure in fondo ripetitive. Da ieri l'Armata ha aperto ai giornalisti stranieri i confini di quella che fu la Krajina di Knin, e dove per tre giorni hanno impazzato i carri della «Gardjska Brigada» adesso incrociano fuoristrada con le insegne di tutte le tv del mondo, si rincorrono equipaggi multinazionali, mentre cortei di pullman conducono in visita guidata inviati di guerra e dopoguerra. Le devastazioni non sono recenti, non quelle che si vedono almeno: l'attacco dei croati sembra aver risparmiato con grande accuratezza gli obiettivi civili. Una delle spiegazioni più convincenti è quella di Ivan Babic, robusto comandante della 119a Brigata: «Tornavamo a casa nostra: le pare che volessimo rovinare la nostra roba?». La brigata di Babic ha preso Rakovica, villaggio di montagna a metà strada fra Knin ed i fantastici laghi di Plitvice, molto vicino ai confini della Bosnia. Andare avanti è sconsigliabile, meglio impossibile poiché gli uomini della «domobranska», la difesa territoriale, bloccano ogni accesso. «La zona è stata minata dai serbi, nessun civile può passare». Quello delle mine è un ritornello che si sente echeggiare in ogni angolo della marca liberata; con la stessa spiegazione anche in Slavonia, a maggio, per tre giorni Okucani e Pakrac non furono visitate da osservatori stranieri. Le aree interdette sono ancora numerose ma a giudicare dagli scorci di Knin, dalle immagini dei villaggi di Banovina come dei rilievi dinarici che precipitano verso il mare, dappertutto i serbi hanno lasciato case e negozi fuggendo a precipizio. A Podlapac, in un chiosco di verdura del centro sono ancora allineate preziosissime ceste di peperoni, pomodori, perfino arance siciliane. A Drnis, il settantaduesimo reparto della polizia militare è entrato senza sparare un colpo e nel cortile di una casa ancora con la porta aperta ha trovato un piccolo tesoro: una cisterna con migliaia di litri di gasolio. In ogni angolo della Krajina liberata noti un dettaglio rivelatore. Non esiste cittadina riconquistata, non c'è borgo o villaggio dove con precisione tutta croata adesso non si vedano poliziotti e postini, dipendenti comunali e funzionari dei telefoni che in luogo delle insegne in cirillico staccate dai soldati già inchiodano cartelli di plastica scuri, con le scritte «Republika Hrvastka» e poi «ufficio postale», o «posto telefonico pubblico», oppure «municipio» o «scuola elementare». Non sono cartelli generici: la «osnovna skola» di Drnis porta scritto Drnis sull'insegna, l'ufficio postale di Dubica ha scritto «poste di Dubica» e così è per centinaia di uffici sparsi nell'ex terra serba del sacrificio, oggi territorio della fu- ga. I dettagli a volte dicono più delle grandi visioni d'assieme, e questo particolare dimostra da solo come a Zagabria qualcuno avesse pianificato 1'«improvviso attacco» con metodicità ammirevole, ma anche singolare preveggenza. Il mito del valore cetnico esce frantumato dalla visione di queste case, intatte ma desertificate dalla paura. A Zitnic l'altra notte un reparto della Guardia ha incontrato un vecchio che girava per il paese chiamando il figlio. «Per fortuna siete arrivati: adesso mi aiutate a trovare il mio Milorad?». E dov'è Milorad? «Sta combattendo contro quei porci degli ustascia». Guarda che gli ustascio, siano noi. Il vecchio è impallidito: «Come, non siete i volontari che vengono ad aiutarci dalla Serbia?». Non se ne sono visti, di volontari «cetnick»: e se è vero che in queste ore reparti corazzati di Belgrado stanno compiendo minacciose evoluzioni ai confini orientali della Slavonia, indubitabile è che la gente serba di queste montagne sia stata completamente abbandonata al suo destino. Da parte croata tutto dimostra un'accurata pianificazione: i servizi già marciano, funzionari civili già nominati arrivano d'immediato rincalzo alle truppe, i telefoni già funzionano (ed in molti luoghi i serbi hanno lasciato le centraline col conteggio degli scatti in sospeso: un giorno, potrebbero perfino vedersi recapitare vecchie bollette). Se uno invece tenta di collocarsi nell'ottica serba, lo stato delle cose trasmette quasi un'idea di stupore: a Glina la gente non ha avuto neanche la freddezza necessaria per fuggire su auto o trattori. Alla periferia della cittadina una sterminata fila di automezzi è rimasta bloccata nei pressi di un fiume: una pioggia di granate croate ha scatenato il panico, qualcuno ha gridato «tirano giù il ponte». E gli rgogliosi «cetnick» delle montagne hanno abbandonato trattori, auto e provviste per scappare a piedi. La documentazione dei loro misfatti già comincia a inondare il mondo. In tutto il territorio liberato - o ripreso - non esiste chiesa che non abbia subito l'insulto di una devastazione dal brutale e fortissimo significalo simbolico. Saranno queste, c'ò uà giurarlo, le immagini che i croati più difficilmente potranno dimenticare. Giuseppe Zaccaria Una divisa serba di Krajina ed una vecchia bandiera jugoslava affisse per spregio dai militari di Zagabria su una vecchia auto A sinistra Tudjman e Granic posano a Knin fra i soldati vincitori (FOTO AUSAREUTERS]

Persone citate: Babic, Brigada, Granic, Ivan Babic, Tudjman

Luoghi citati: Belgrado, Drnis, Podlapac, Rakovica, Serbia, Slavonia, Zagabria, Zitnic